festival intern. del film di roma Roma Capitale, 27 ottobre / 04 novembre 2011
recensioni
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> THE lady di Luc Besson > la BRINDILLE di Emmanuelle Millet > ostende di Laura Citarella > un cuento chino di Sebastián Borensztein > little glory di Vincent Lannoo > pina di Win Wenders (a cura di G. Francioni) |
di
Sebastian Borensztein
Premio Marc’Aurelio della Giuria al miglior film Premio BNL del pubblico al miglior film |
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29/30 |
Alla sesta edizione del Festival di Roma vince la realtà paradossale di UN CUENTO CHINO, opera terza di Sebastian Borensztein, figlio del grande comico Tato Bores, che esordisce come creativo pubblicitario e regista televisivo per poi fare il grande salto, passando tutt’altro che inosservato al Festival del Cine Latino sia di Toulouse che di Trieste, con il primo lungometraggio LA SUERTE ESTA ECHADA (2005) seguito da SIN MEMORIA (2010), scritto e prodotto con Benjamin Odell. Cina: su una romantica barchetta addobbata a festa il giovane Jun (Huang Sheng Huang) sta per fare la proposta di matrimonio alla fidanzata quando una mucca in caduta libera atterra sulla testa della bella, uccidendola. L’incipit dal sapore assurdo prende spunto da un fatto realmente accaduto. Buenos Aires: Jun, in cerca dell’unico parente ancora vivo in tutto il globo, uno vecchio zio, viene scaraventato giù da un taxi e piomba nella vita di Roberto (Ricardo Darin, Oscar nel 2010 per EL SECRETO DE SUS OJOS), burbero e solitario ferramenta di origine italiane, che nemmeno le attenzioni e i manicaretti di Mari (Muriel Santa Ana) sembrano poter mitigare. Tra i due comincia una convivenza forzata e singolare, scandita da tempi comici eccezionali e basata soprattutto sul rispetto reciproco nonostante i due mondi appaiano lontani, nonostante la barriera linguistica tra lo spagnolo e il mandarino sembri insormontabile. La comunicazione allora deve necessariamente arricchirsi di gesti, sguardi, silenzi. La monotona quotidianità di Roberto, fatta di viti e bulloni, di manie varie, di collezioni di animaletti di vetro e ritagli di giornali con le notizie più strane, viene rotta all’improvviso dalla presenza del mite, servizievole e disperato Jun. I due scoprono di avere molto in comune: sono entrambi orfani da tempo, il dolore si è affacciato presto e ferocemente nella loro esistenza e per Roberto c’è anche una guerra di mezzo, quella delle Falkland/Malvine, che da ragazzo lo ha segnato in modo ancora più profondo. E poi c’è quella straordinaria capacità umana, un pò animalesca, di accogliere l’imprevisto della vita e andare avanti. Ognuno a suo modo, ma sempre con dignità. Il riconoscimento come miglior film è doppio: Marc’Aurelio d’Oro da parte della giuria presieduta da Ennio Morricone e Premio BNL voluto dal pubblico (teatrino a parte gentilmente offertoci dal Presidente Luigi Abete con sventolamento del libretto degli assegni sotto al naso dell’incredulo e compassato regista argentino). Applaudito da pubblico e critica, manca solo la sua distribuzione nelle sale italiane l’anno prossimo per conto dell’Archibald che in trent’anni di esperienza vanta più di 180 titoli firmati da registi del calibro di Wenders, Almodovar, Kusturica e Kaurismaki oltre a KILL ME PLEASE di Olias Barco e al FAUST di Sokurov. Presto saremo dunque piacevolmente travolti da COSA PIOVE DAL CIELO?: 98 minuti di una normale storia assurda piena di umanità. |
di Laura Citarella
sez. "L'altro cinema" - Fuori Concorso |
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30/30 |
OSTENDE come La finestra sul cortile? OSTENDE come Blow-Up? OSTENDE, è un film sulla centralità del vedere. È vero. Ma è altrettanto vero che il film d’esordio di Laura Citarella ruota su visioni mancate. Quello che Laura, la protagonista, riesce a scoprire attraverso lo sguardo è, infatti, molto poco. Proprio per questo, integra quel poco con congetture via via più ardite. OSTENDE segna l’esordio alla regia di Laura Citarella, ragazza italo argentina che in questo film ha messo un talento che va oltre la pedissequa riproposizione di tematiche hitchcockiane da manuale. Nel festival romano, tra tanti titoli, non ha potuto avere molta visibilità e non tutti l’hanno apprezzato. La protagonista di OSTENDE è Laura (Laura Paredes), ospite di un albergo per aver vinto il premio di un gioco radiofonico. Il fidanzato (Santiago Gobernori) la raggiungerà nel week-end. La stagione estiva è finita e oltre a lei, nell’albergo, ci sono solo due ragazze e un anziano uomo che condivide la stanza con una di loro. La relazione che lega queste tre persone risulta poca chiara, così Laura inizia a osservarli, intrigata dai possibili misteri che sembrano condividere. La sua ossessione continua anche quando il fidanzato la raggiunge. L’occhio di Laura, e quello dello spettatore che si sovrappone al suo, riescono solo a carpire tracce e indizi sporadici: un biglietto, un litigio fra l’uomo e una delle due ragazze con cui si era appartato, un dialogo tra le due ragazze. La regia guida lo sguardo secondo rigide regole: la morbosità voyeuristica della protagonista si traferisce allo spettatore ed è frustrata dalla concatenazione di visioni mancate. La strettissima e vincolante aderenza con l’occhio di Laura, i silenzi lunghissimi che sottolineano la sua solitudine, gli ambienti vuoti e freddi evocano una dimensione vagamente onirica che sembra legare la curiosità di Laura alla sfera del desiderio represso, alludendo all’insoddisfazione per la vita di coppia e all’attrazione verso zone d’ombra. Ma tutto in OSTENDE è traccia, mai limpida, di possibili interpretazioni prive di conferme. La possibilità di un mistero torbido è esposta con una cifra quasi ironica, come nel caso della musica di commento che prelude in maniera sistematica e meccanica alle apparizioni dell’uomo anziano. E secondo schemi che si ripetono più volte, il momento rivelatore finisce con lo sfuggire puntualmente agli occhi della ragazza. Come le visioni anche le parole risultano vuote. Il silenzio domina ampie sequenze di OSTENDE. Ma è nei momenti di silenzio che si attiva di più la mente dello spettatore che deve integrare i buchi di una storia che si può solo immaginare. Quando si parla, le parole servono a poco. O sono battute di servizio o sono divagazioni. Come nel caso del giovane barista che fa un lunghissimo racconto per esporre il soggetto di un film che ha in mente. Tantissime parole solo per raccontare i primi minuti di un film in potenza all’interno di un film fatto di vuoti. È solo nelle parole di Laura, che immagina un collegamento fra le poche cose che ha visto, che i vuoti di OSTENDE sembrano potersi riempire. Gli occhi di Laura non sapranno mai se la storia da lei ipotizzata sia fondata. Lo saprà invece lo spettatore, grazie ad una scena finale che, staccandosi dagli occhi della ragazza, ci mostra la verità in un campo lunghissimo che strania e oggettiva la nostra partecipazione. |
di
Vincent Lannoo
sez. "Alice nella città" - Concorso |
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28/30 |
Il festival del cinema di Roma, tra le consuete critiche (Detassis - Galan su tutte ), ha invece proposto titoli ed eventi interessanti che quantomeno ne legittimano l’esistenza. I tanti modi in cui il cinema può raccontare la maturazione dei ragazzi, ad esempio, trovano ampio spazio nella bella sezione "Alice nella città", una tra le note positive dell’evento romano. Little Glory, film con cui il regista belga Vincent Lanoo concorre tra i titoli di Alice, è un bel film. La storia parte da uno spunto molto classico: il diciannovenne Shawn (Cameron Bright, l’Alec della saga di Twilight) ha perso a distanza di poco tempo, entrambi i genitori. È costretto ad accudire Julie, la sorella di nove anni. Spera di ottenere l’assicurazione sulla vita che il padre ha intestato soltanto a Julie, ma la deve contendere alla zia (Astrid Whettnall), decisa a ottenere l’affidamento della bambina. La vita di Shawn , ragazzo allo sbando, privato delle figure dei genitori, in una provincia violenta, sembra la meno idonea all’affidamento della piccola Julie. A legare Shawn e la sorella è la solitudine di entrambi. Il regista, sullo sfondo di una cittadina canadese, racconta con uno stile duro e spoglio la vita di strada, ma la sua cifra stilistica è autentica; non è una vuota e furbesca imitazione dell’8Mile di Curtis Hanson (per altro fuori concorso a Roma con Too big to fail). Ne è prova il modo con cui il suo modo di narrare si armonizza, valorizzando e arricchendo di sfumature, lo spunto in sé banale, su cui si regge la storia. Con crudezza minimalista viene costruita, ad esempio, la scena della morte del padre di Shawn, che, fuori campo, cade dall’impalcatura dove sta lavorando: una panoramica a destra mostra un collega che gli sta parlando, l’uomo sta ancora parlando quando la mdp ritorna a sinistra: il padre di Shawn non c’è più. Una piccola panoramica verso il basso mostra il corpo caduto. Tra parolacce, musica rap, furti e lotte tra cani emerge la tenerezza di Shawn, personaggio che mette in luce le doti di Cameron Bright (bella la sua camminata che vorrebbe essere spavalda, e la sua espressività in cui trapelano, dolori profondi e preoccupazioni che non si possono celare). Molti meriti vanno riconosciuti a Lanoo, che dirige benissimo anche la piccola e talentuosa Isabella Blake-Thomas (la più raggiante, tra regista ed attori presenti alla proiezione del 31 ottobre). Il breve discorso, che il protagonista tiene prima che il giudice emetta il verdetto, è diametralmente opposto ai comodi e ammiccanti monologhi risolutori di cui è zeppo il cinema hollywoodiano. Shawn è un perfetto antieroe che sta al Jimmy Smith Jr. (Eminem) di 8 Mile come Michel Poiccard (Belmondo) di A bout de souffle stava al detective Marlowe (Bogart). Se la proporzione è forzata e si vuole ridimensionare il bel film di Lanoo si potrebbe fare qualche critica ad alcune deviazioni, che fanno perdere un po’ di ritmo, alla sceneggiatura che racconta la vita disordinata di Shawn. La scena finale, sembra richiamare, anche per vicinanza d’argomento, My nam is Sam, film strappalacrime con Sean Penn. Dal paragone, ne uscirebbe molto meglio Little Glory, per l’onestà dei contenuti e il sincero coinvolgimento che riesce a suscitare. |
la brindille
sez. "Alice nella città" - Concorso |
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29/30 |
Semplice e forte. Il film d'esordio di Emmanuelle Millet affronta temi delicati con grazia formale e profondità di pensiero. Commuove e fa riflettere. La sezione "Alice nella città" del Roma Film Festival, ha aperto il 27 ottobre, con questo pregevole titolo. Sarah (Christa Théret) è una giovane ragazza che vive a Marsiglia. Durante uno stage in una galleria d’arte, a causa di un improvviso malore, scopre di essere incinta di sei mesi. Il feto si era sviluppato verso l'alto, celando i segni della gravidanza; è troppo tardi per abortire. Senza lavoro e senza casa, la ragazza è costretta a ricoverarsi nella clinica locale che dà ospitalità a molte altre giovani ragazze madri. Sarah, che vuole dare in adozione il figlio non appena nascerà, deve nascondere la sua decisione alle altre compagne, che hanno scelto di diventare madri, nonostante le situazioni molto difficili in cui vivono. Diffidente verso tutti, la giovane protagonista riesce a intrecciare un rapporto profondo solo con un ragazzo (Johan Libéreau) che ha perso la madre a tre anni, ed è preoccupato tanto per lei che per il suo bambino. Sarah, invece, tratta la figlia che sta nascendo come un corpo estraneo con cui non vuole avere alcun contatto. Vorrebbe illudersi che, dando subito la bambina in adozione, potrà tornare a una vita che invece, dopo la maternità, non potrà più essere la stessa. Emmanuelle Millet, con grande fiducia nell'onestà intellettuale dello spettatore, racconta senza imporre il proprio punto di vista sulle molteplici tematiche che un soggetto simile porta, inevitabilmente con sé. La regia segue i moti interiori della giovane protagonista; stringendo su primi e primissimi piani, la isola dal mondo esterno con cui inevitabilmente deve confrontarsi; così, gli occhi espressivi di Christa Théret, intensa ma mai sopra le righe, si posano su situazioni di vita che fanno affiorare i suoi turbamenti: le ragazze del centro d'assistenza che tentano invano di far smettere di piangere il neonato di una loro compagna assente, dei bambini che giocano all'aperto. La sceneggiatura, essenziale e ordinata, e la regia che seleziona momenti significativi e racconta per rapidi accenni, evitano sia esiti didascalici e semplicistici, sia un compiaciuto estetismo, giocato su banali momenti melodrammatici. Brindille in italiano significa fuscello, e Sarah è proprio un fuscello in balia della vita. Sono in molti, ragazze, ma anche ragazzi, a potersi immedesimare nel personaggio di Sarah, costretto dagli eventi a capire che la vita, anche se non lo vogliamo, ci pone davanti a problemi che non possiamo aggirare e soprattutto che, molto spesso, non hanno una risposta giusta. L'importante è affrontarli, consapevoli che non si raggiunge una vera indipendenza senza passare attraverso il confronto con gli altri e sé stessi. Il personaggio di Sarah è avvincente perché determinato, nonostante tutto, a trovare da solo la propria strada. Ma l'ingenua idea di individualismo da cui parte, diventa sempre più problematica e sofferta, attraverso i tre mesi di gravidanza e il confronto con varie figure: la direttrice della clinica, il ragazzo con cui intreccia una profonda relazione, una ragazza del centro diventata madre contro il volere di tutti i suoi famigliari. Il limite tra individualismo ed egoismo è un problema che emerge. Ma il film non permette giudizi affrettati e moraleggianti. Mentre gli altri si preoccupano per il futuro che avrà il bambino, Sarah sembra più preoccupata per sé. Ma il conflittuale rapporto con il suo bambino agisce a livello sotterraneo. E se arriva, chiarissimo e potente, allo spettatore, è perché questo film è curato con grandissima sensibilità in ogni suo aspetto. Tutto è calibrato con sapienza: dalla musica di commento, semplici arpeggi che accompagnano le riflessioni interiori del personaggio, al montaggio, che ricorre a piccoli salti ed ellissi per narrare i momenti della quotidianità di Sarah, scandita dalla lacerante consapevolezza dell'imminente gravidanza. |
pina
Spettacolo - Eventi Speciali |
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25/30 |
Pina Bausch creava movimenti e gesti pensandoli come interpretazione (in vista di traduzione in qualcos’altro) delle composizioni di Gluck, Stravinskij, Purcell, Mahler. La nota musicale - contenuta anche nella parola/voce- era matrice della coreutica. Wenders intende invece il suono some uno dei fattori aggregati per produrre il testo filmico, senza che venga annullata la distanza tra esso e i semi del linguaggio cinematografico. In LISBON STORY il microfonista draga cellule sonore ovunque, ma queste non agiscono direttamente sui movimenti di macchina, non DIVENTANO cinema. Tutto, in Pina Bausch, diventava danza, in primis la musica. Ecco la differenza tra i due grandi amici, ecco il perché PINA non è così lontano come potrebbe sembrare da BUENA VISTA SOCIAL CLUB. Stabilita questa premessa, occorre peraltro osservare come il tentativo wendersiano - ampiamente riuscito - di superare l’empasse ventennale nella quale si è infilata la sua arte utilizzi paradossalmente il 3D per scolpire un vuoto, cioè l’assenza definitiva della ballerina tedesca. In NICK’S MOVIE la vitalità era massima, anche nei movimenti della m.d.p., quanto più ci si avvicinava alla fine di Ray, mentre qui la creazione di profondità sfonda i limiti dell’abisso, facendocelo intuire nel buio di fondo di CAFé MULLER, correttamente riprodotto anche in una maquette color canna di fucile (camera obscura del Tempo) dove i danzatori e la stessa Pina sono collocati, sino all’immagine finale, che vede l’artista allontanarsi sullo schermo di fondo del plastico fattosi teatro reale. Questa sottolineatura della profondità di campo, insomma, questo continuo sfondamento non fa altro che spingere la Bausch nell’abisso, ce la sposta indietro definitivamente invece che riavvicinarcela. Il film sceglie quattro coreografie storiche, “Café Müller”, “Le Sacre du printemps” (l’incipit), “Vollmond” e “Kontakthof”, attorno alle quali viene costruito un nitido meccanismo d’interviste mute ai ballerini della compagnia Wuppertal Tanztheater, che parlano per interposto voice over sui loro close-up malinconici, alternate a brevi segmenti coreografici bauschiani girati sia en plein air che in studio, sia a Wuppertal che a Essen e Solingen (sempre Westphalia,comunque). Wenders, confermando un’antica vocazione a metà tra road-movies e neue sachlichkeit, non riesce a staccarsi dal contesto-strada, dalle linee urbane che segnano l’andare, stavolta il traghettare da una dimensione all’altra. La sopraelevata è ora tetto per le scene urbane, ora spazio interno da abitare e il regista di PARIS, TEXAS dà il meglio di sé proprio nelle riprese cinetiche che si misurano con il movimento interno della città (o con i suoi paesaggi di archeologia urbana). La Bausch, come detto, non c’è: il progetto era partito nel 2008, quindi troppo tardi per poter lavorarci a quattro mani stabilendo le coordinate insieme a Wenders. Appare, molto fantasmatica, in brevissimi momenti che il regista sembra voler cancellare subito, quasi che l’evidenza di quel corpo bidimensionale possa scardinare, con la sua forza primigenia, il sistema di investigazione tridimensionale dei piani della visione. L’omaggio di Wenders è stato quindi concepito come un testo filmico di pura seduzione visiva su alcuni tra i lavori più significativi della coreografa e non come quello che ci si sarebbe aspettati, ovvero la composizione articolata, il collage di materiali DI o SU Pina.Ci troviamo tra le mani, quindi, un oggetto levigato, compiutissimo sotto l’aspetto della forma, costruito tutto su movimenti della m.d.p. che seguono la danza ma non diventano essa, didascalicamente completo eppure monco, senza la vitalità fisica che solo il corpo indescrivibile della Bausch era in grado di comunicare, sia in quanto oggetto ripreso, sia come soggetto osservante. Il film di Wenders risulta privato della parola di lei e del suo sguardo, indagatore di anime, come ci viene detto da tutti i testimoni di decenni di attività infinita, inarrestabile, innaturalmente arrivata a un termine. PINA è voluttuoso, quasi un saggio su come filmare coreografie ora complesse ora minimaliste, ma, alla fine, assume la forma un po’ rigida di un collage costruito su uno schema ripetuto all’infinito. Pina Bausch e il cinema: forse i lavori con e per Schroeter, Fellini e Almodovar (indirettamente citato qui per una velocissima coreografia su LEAOZINHO di Caetano Veloso) rendono e continueranno a restituirci la necessaria ma vitale bidimensionalità della tedesca sul grande schermo |
the lady
Fuori Concorso |
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26/30 |
L’apertura del festival romano del cinema è stata ricordata soprattutto per la presentazione di The Lady , film biografico su Aung San Suu Kyi, “l’orchidea d’acciaio”, premio Nobel per la pace nel 1991 e leader pacifista, che dal 1987 a oggi si è battuta per la democrazia in Birmania, contro una dittatura che la tiene in ostaggio nel suo stesso paese. Il film era atteso, sia perché Besson è considerato uno dei big di questo sesto festival del cinema di Roma, sia perché il soggetto si distingue fortemente da quelli con cui il regista di Nikita, Leon, Giovanna d’Arco si è precedentemente confrontato. Missione riuscita? Si potrebbe dire di sì.La critica ha apprezzato senza particolari riserve, elogiando l’impegno con cui Besson e la sceneggiatrice Rebecca Frayn si sono votati a quello che definiscono “un atto d’amore”. Certo, l’opera di Besson è da elogiare perché, come lui stesso dichiara nella conferenza stampa seguita alla proiezione, contribuisce a far conoscere la situazione birmana e l’eroismo della donna che più si è sacrificata per la libertà della sua patria. Ma al di là dei contenuti ( nobili e commoventi ) a cui rimanda, maggiori riserve si potrebbero invece avere nei confronti del film in sé. Tradurre attraverso il linguaggio del cinema la drammatica complessità della storia birmana e di Aung San Suu Kiy poteva essere, infatti, un’arma a doppio taglio. La scrittura del film è passata attraverso il reperimento di molte testimonianze e un’opera di ricerca resa ancor più ardua dall’impossibilità di contattare la pacifista birmana. La storia raccontata in The Lady abbraccia un arco di tempo che va dal 1947 al 2007, e racconta di rivolte studentesche, repressioni da parte del regime, complicati rapporti di forza di politica internazionale, nonché del dramma privato di una donna che, per votarsi all’attivismo politico, deve separarsi da un marito e da due figli che vivono ad Oxford. Luc Besson ha scelto di tradurre tutto questo in immagini chiare, semplici, dirette. Per intraprendere la strada della semplificazione visiva, ha quindi, con grande mestiere, utilizzato le forme più codificate, e quindi immediate, del cinema: le repressioni del regime si risolvono con un montaggio in parallelo fra le scene del discorso pubblico tenuto da Suu Kiy, e quelle degli studenti che vengono caricati sulle camionette dei militari; lo sciopero della fame è raccontato con un montaggio iterativo che mostra i vani tentativi fatti per convincere la donna a mangiare; il pacifismo verso cui è orientata trova traduzione visiva nel libro su Gandhi che lei legge in una scena e successivamente, quando il consenso nei suoi confronti aumenta, si vede tra le mani di una sua sostenitrice. Non mancano sequenze con valore d’apologo, a volte eccessivamente didascaliche, altre volte più convincenti ed emotivamente efficaci. La semplicità con cui Besson maneggia queste soluzioni è però solo apparentemente scontata. Bravi gli attori, che sembrano integrarsi perfettamente con gli intenti perseguiti dal regista: la grazia determinata dell’orchidea d’acciaio ha il volto di Michelle Yeoh, mentre Michael Aris è interpretato da un altrettanto meritevole David Thewlis, che, cogliendo bene i propositi della sceneggiatura e del regista, riesce a velare d’intelligente ironia il suo personaggio senza, per questo, uscire dal registro melodrammatico a cui è destinato. Quello che Luc Besson si riproponeva di fare, lo ottiene: fa ruotare una storia complessa intorno a due poli principali: l’impegno verso la patria e le difficoltà date dalla lontananza con i familiari. I dolori privati di Aung San Suu Kiy sono infatti l’altro aspetto che il film evidenzia, sempre secondo la formula bessoniana, votata alla schematizzazione. L’esemplarità della vita che si sta raccontando è infatti racchiusa intorno a una situazione chiave che l’istanza narrante non esita a rendere quanto mai chiara: è giusto sacrificare i propri affetti per una causa in cui si crede? Il regime birmano, condannando agli arresti domiciliari Aung San Suu Kiy, la separa da suo marito, gravemente ammalato, e dai due figli. Quando viene proposto alla donna di ritornare in patria per ricongiungersi a loro, le viene fatto intendere che, se dovesse partire, non le sarebbe più dato il permesso di tornare in Birmania. Aung San Suu Kiy si chiede: "Che libertà è questa?" Besson, per sua stessa ammissione, ha voluto focalizzare l’attenzione del pubblico, non sul valore politico della storia di Aung San Suu Kiy, ma sul lato umano. Ma l’utilizzo costante di soluzioni fin troppo codificate rappresentata anche il limite di The Lady. Besson rinuncia a un approfondimento interpretativo delle vicende. L’assenza di problematicità con cui affronta questioni gravi e complesse (la semplicità formale è solo un riflesso dell’eccessiva semplificazione interpretativa) fanno sì che The Lady sia un buon film, in grado di sensibilizzare un vasto pubblico, ma non un’opera matura, ricca dei molti stimoli che ci si aspetterebbe. Suona strano sentire, durante la conferenza stampa del festival, una domanda relativa alla possibilità di vittoria agli Academy Awards. Molto più convincente la risposta di Luc Besson, che si limita a notare come qualsiasi genere di visibilità che il film può avere, e che può contribuire alla causa di Aung San Suu Kiy, è da desiderare. Il film è commerciale, e l’aggettivo vuole avere un’accezione positiva, ma ci sono film biografici che hanno trovato soluzioni ben più potenti per comunicare messaggi altrettanto importanti; penso al Ché di Soderbergh o (seppur più inserito nell’alveo dell’apologia) al nostrano I Cento passi, molto più che a Gandhi o Schindler’s list. Nella sezione Alice nella Città del festival di Roma, concorrono registi ben meno noti rispetto ai nomi ( giustamente considerati grandi ) di Spielberg, Scorsese, o anche Besson; lo fanno con opere che per spessore e problematicità possono benissimo figurare accanto a molti titoli cui la stampa dà maggiore spazio. Questi interessanti autori, che forse in Italia potranno essere visti solo in quest’occasione, legittimano una domanda, indirettamente suggerita dallo stesso Luc Besson: e se non fosse stato Besson il regista di The Lady (come inizialmente sarebbe dovuto essere)? è vero, la complessità della materia poteva sfuggire di mano a molti, ma è anche vero che oltre alla strada scelta dall’acclamato regista francese se ne potevano intraprendere di ben più coraggiose. |
festival intern. del film di roma Roma Capitale, 27 ott / 04 novembre 2011
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