
SILK
(Seta)
di Francois Girard
Canada/Italia/Giappone 2007, 112'

Una gestazione lunga dieci anni, una
coproduzione italo-canadese-giapponese, un tris d’attori di tutto rispetto -
Michael Pitt, Keira Knightley e Alfred Molina - la colonna sonora di un
musicista del calibro di Ryuichi Sakamoto (leggi
l'intervento di Pallotti in "Suoni del Cinema") non sono serviti a fare
di Seta di Francois Girard un
buon film. Tratto dall’omonimo libro di Alessandro Baricco - caso editoriale
anno 1996 tradotto in oltre 26 lingue - il film non si discosta molto dal
libro.
La storia narrata è quella della vita del
giovane Hervè Jancour (Michael Pitt), felicemente sposato con la dolce
maestrina Hèléne Fouquet (Keira Knightley). Per incrementare la produzione
delle fabbriche di seta di Lavilledieu, il villaggio in cui abita, il
giovane parte per l’Estremo Oriente, terra nota per la lavorazione di
tessuti sottili come l’aria, alla ricerca di nuovi bachi da seta.
In uno dei suoi viaggi, dopo aver attraversato ghiacciai, deserti e mari
sconfinati - fotografati secondo il miglior metodo National Geographic -
incontra una giovane donna asiatica. Ne è stregato. L’attrazione silenziosa
che lega i due spingerà il giovane ad intraprendere nuovi e pericolosi
viaggi nelle terre d’oriente, dilaniate da conflitti civili. Lacerato dai
sensi di colpa, diviso tra la forte attrazione per la ragazza e l’amor per
la dolce Hèléne, Jancour scoprirà, alla fine, il grande segreto che la
moglie ha portato con sé nella tomba, grande prova d’amore e di devozione.
Se il libro racchiude in poche tratti una storia ricca di suggestioni,
sensualità ed emozioni, il film invece si appesantisce troppo, colpa dei
lenti, lentissimi tempi di narrazione. La densità affabulativa delle pagine
di Baricco si riduce, invece, nella pellicola di Girard in dialoghi sterili,
a tratti noiosi.
Stupisce quindi, che sia stato lo stesso Baricco a scegliere, tra i tanti
che avevano provato a rielaborare cinematograficamente la sua opera, questo
adattamento del regista canadese che non convince e, decisamente, non
entusiasma.
THE
DUKES
di Robert Davi
Stati Uniti 2007, 94'

Il cattivo di
007-Vendetta privata Robert
Davi debutta alla regia e lo fa con una commedia divertente e di semplice
fattura. Il suo The Dukes
presentato nella sezione "Premiere" della Festa del Cinema di Roma, è
semplicemente delizioso. La storia è leggera e, ad essere sinceri, nulla di
nuovo aggiunge al genere.
I membri della band dei Dukes, Chazz Palminteri e lo stesso Robert Davi
erano famosi negli anni Sessanta ma, nell'America del 2007, sono del tutto
sconosciuti. Affiancati da un gruppo surreale di collaboratori, Frank
D'Amico nel ruolo di Aremand e Elya Baskin nel ruolo di Murphy, i due
cercano di sbarcare il lunario grazie anche alle assurde idee del manager,
un Peter Bogdanovich sempre in stato di grazia. I quattro amici provano a
guadagnare facili soldi con un facile furto ma, come insegna la commedia
greca, il gioco degli equivoci e delle casualità cambia inevitabilmente il
corso degli eventi.
Mai, tuttavia, un gruppo di pseudo criminali ha generato tanta simpatia,
Davi fa della goffaggine dei personaggi il suo cavallo di battaglia
realizzando una pellicola corale che fa tesoro dei migliori insegnamenti
della commedia all'italiana e della black comedy. Quello che ne viene fuori
è una storia semplice e divertente, un film all'americana ma con sensibilità
e umorismo tutto all'italiana.
Menzione speciale alla colonna sonora, grande
tributo del regista italoamericano all'avvocato del jazz Paolo Conte. Sei i
suoi brani presenti nella pellicola che da "Comedì" a "Lo Zio" da “Via con
Me" a "Nord" portano alla storia quei tratti gentili e scansonati che ne
rappresentano la sua forza.
L'happy end continuamente posticipato arriva,
come da copione, in un finale smielato che ad alcuni potrà infastidire ma la
storia di questi quattro disperati che a tutti i costi cercano di rifarsi
una vita non può non fare simpatia. Classico film da vedere con leggerezza e
senza impegno.
Youth Without Youth
(un altra giovinezza)
di Francis Ford Coppola
Romania/Francia/Italia 2007, 124'

Dopo 10 anni di attesa il ritorno di Coppola al cinema con
Youth withouth youth, in
italiano Un'altra giovinezza,
diventa senza dubbio l’evento più atteso dell’intera Festa del Cinema di
Roma, soprattutto perché il regista italo americano ha scelto questo
festival per presentare il suo nuovo lavoro in anteprima mondiale.
Difficile collocare la pellicola in un genere,
essa è thriller, storia d’amore e d’avventura, nonché appassionata indagine
filosofica.
Spiegarne la trama sarebbe riduttivo per quanto essa è legata a filo doppio
a tutto il non detto che il film nasconde. Ma, in sintesi.
Un’altra giovinezza è la
storia di una seconda chance, una nuova possibilità di vita che il destino
concede a Dominic Matei (Tim Roth), attempato professore di linguistica che,
folgorato da un fulmine, ritrova una misteriosa vitalità mentale e forza
fisica. Grazie a quest’evento straordinario può riprendere gli studi di una
vita basati sull’origine del linguaggio, del tempo e della conoscenza. Dopo
essere sfuggito ai nazisti che vogliono poter sfruttare le sue potenzialità,
Dominic si imbatte in Laura (Alexandra Maria Lara) una donna che le ricorda
Veronica, l’amore di gioventù mai dimenticato. La donna, in seguito ad un
incidente in montagna comincia a parlare in sanscrito e si presenta come
Rupini, discepola di un filosofo indiano vissuto nel VII secolo. Dominic e
Veronica si innamorano e fuggono a Malta lontano dall’attenzione morbosa
della stampa internazionale attratta dalla singolare coppia dell’uomo
ringiovanito da un fulmine e dalla donna oggetto di una reincarnazione. Nel
soggiorno maltese Veronica comincia a vivere continui episodi di
reincarnazione nei quali si esprime in lingue arcaiche sempre più antiche.
Quando la situazione della donna comincia a peggiorare Dominic, pur
affascinato dalla possibilità di raggiungere, tramite le sue estasi,
l’origine del linguaggio, comprende di doverla salvare. Rinuncia a lei, e ai
suoi studi e, così facendo, la salva. Ritornato nella città natale di Piatra
Neamt, in Romania, Dominic è arrivato alla fine del suo viaggio, ritrova, in
sogno o nella realtà questo non importa , i suoi vecchi amici. Il cerchio si
chiude lì dove è iniziato: Dominic comprende che è arrivata la sua ora, e si
abbandona sulla neve ad una morte che lo trova, stavolta, pacificato.
Non è sbagliato definire Un’altra
giovinezza un film autobiografico, è lo stesso regista a farlo. “Come
Dominic, ero torturato e bloccato dalla mia incapacità di portare a termine
un lavoro importante. A 66 anni, mi sentivo frustrato: da otto anni non
facevo un film, le mie aziende andavano a gonfie vele, ma la mia vita
creativa era inappagata”.
La nuova chance che concede al suo protagonista è la possibilità che lui
stesso si è dato, per ritornare ad una certa idea di cinema: lontana dai
budget hollywoodiani e dalle faraoniche produzioni americane, un cinema che
sa di autonomia e di nuova creatività. Il fulmine che dà a Dominic la
possibilità di avere una seconda possibilità, è stato per Coppola il testo
di Mircea Eliade, intellettuale, storico e studioso di religioni, che ha
ispirato il suo lavoro.
E se quello di Dominic è un viaggio a ritroso alle origini del linguaggio e
della conoscenza, quello di Coppola è, senza ombra di dubbio, una sfida,
fatta a se stesso, per ritrovare la sua personale concezione di cinema.
Grande la prova degli attori, uno su tutti lo straordinario Tim Roth che
porta sullo schermo un personaggio dai 26 ai 101 anni, e che si esibisce
nella duplice interpretazione, dell’io fisico di Domic e di quello
proiettato, malefico e doppio che lo accompagna fino alla fine. La sua
interpretazione di Dominic, asciutta e mai sopra la righe, permette di
attraversarne tutta la complessità e profondità.
Ad una prima visione, quindi, quello di Coppola sembra essere un percorso
molto intimo e personale, compiuto, soprattutto, senza nulla concedere al
suo pubblico.
Il film è talmente ricco, complesso, sofisticato, simbolico, e pieno di tali
rimandi metaforici e filosofici che una seconda visione andrebbe consigliata
per coglierne a pieno i continui rimandi e le innegabili stratificazioni.
L'
Amour Caché
(Hidden Love)
di Alessandro Capone
Lussemburgo/Italia/Belgio 2007, 93'

Amare una figlia sembra essere la cosa più
naturale del mondo, esigenza spontanea e quasi vitale, a partire dal momento
stesso del concepimento. Non è così per Danielle, la protagonista del film
di Alessandro Capone L’amour cachè
presente nella sezione Cinema 2007 in Concorso. Isabelle Huppert,
sempre a suo agio in ruoli eccessivi e al di sopra delle righe, porta sullo
schermo una borghese parigina, tre volte suicida che, ricoverata in un
ospedale psichiatrico, fa i conti con un innaturale sentimento di odio e
ostilità nei confronti della figlia Sophie (Mélanie Laurent).
A condurla per mano nel viaggio claustrofobico e angosciante nelle radici
profonde di questo sentimento è Greta Scacchi, nel ruolo di una psichiatra
troppo coinvolta e partecipe delle disavventure della donna.
Tratto dal romanzo autobiografico “Madre e ossa” di Danielle Girard, la
pellicola di Capone racconta delle devastanti ripercussioni psico-fisiche
che può provocare in una donna, la certezza di non amare la propria figlia.
Quello che va in scena è il conflitto ancestrale tra madre e figlia, a colpi
di ferite inferte negli anni e mai rimarginate. Un’atmosfera fissa,
silenziosa e ovattata circonda le allucinazioni di Danielle, accompagnate da
una colonna sonora che rimbomba metallica e fredda come gli ambienti
dell’ospedale nel quale la protagonista consuma le sue giornate. Quello
della donna è un amore “cachè”, nascosto appunto, che riemerge solo
attraverso quel sacrificio finale grazie al quale la figlia concede alla
madre l’inattesa e insperata catarsi: la possibilità, cioè, di
riappropriarsi di sentimenti positivi e materni attraverso l’affetto verso
la nipote.
Come sempre Isabelle Huppert soddisfa le aspettative del copione. Bene ha
fatto Capone ad aspettarla per sette anni. Il personaggio di Danielle sembra
disegnato proprio su di lei: il suo viso ossuto e spigoloso esprime con
grande efficacia il tormento interiore di una donna che ritrova la sua
natura di madre, solo nel momento in cui, tragicamente, perde il frutto del
suo grembo.

ACCROSS THE UNIVERSE
di Julie Taymor
Stati Uniti 2007, 131'

Durante gli anni sessanta, l’incontro e l’amore a New York di un ragazzo
inglese (Jim Sturgess) e di una ragazza di provincia americana (Evan Rachel
Wodd). Fra gli strascichi di passate relazioni e le proteste giovanili
contro la guerra del Vietnam, che vedrà coinvolto un caro amico della coppia
(Anderson), il loro sogno trionferà.
Se si parte dal presupposto di non vedere un film ma solo una serie di
ispirati video-clip, allora si può godere appieno di questa operazione nata
già in partenza come un’impresa impossibile; a dir poco arduo infatti
sarebbe risultato anche al più grande degli sceneggiatori far confluire
trenta canzoni dei Beatles all’interno di un’opera narrativa. E infatti qui
di narrativo c’è ben poco, e di non eccezionale originalità: una love story
esile esile, personaggi appena abbozzati, nessuna vera necessità drammatica
al di là di una insipida denuncia antimilitarista. Ma se la regista è una
come la Taymor, la quale già col suo Titus si era dimostrata propensa a fare
del proprio indiscutibile talento visionario un’arma tanto suggestiva quanto
fine a se stessa, allora ci si ritroverà probabilmente bendisposti a
rinunciare entro breve alla pretesa di un qualche contenuto in favore di un
trip musical-visivo non indifferente: immagini potenti, arrangiamenti
originali, ottime interpretazioni vocali, le canzoni più belle che siano mai
state scritte e Bono che canta I Am the Walrus. Che si vuole di più?
Per i fan dei baronetti di Liverpool, nonostante
tutto, rimane una festa per gli occhi e per le orecchie. Per i pochi altri…
beh, hanno problemi molti più grandi a cui pensare.
Voto: 26/30
Roma, 28:10:2007 |