Un giovane avvocato inglese, Arthur Kipps, vedovo da 4 anni e
con un bambino piccolo, rischia il licenziamento ed è costretto a recarsi in
un remoto villaggio per seguire la causa relativa ad una casa abbandonata.
Nonostante l’astio degli abitanti riuscirà a scoprire il mistero della donna
in nero che infesta la villa.
Sceneggiato da Jane Goldman e diretto da James Watkins (Eden
Lake), il film è tratto dall’omonimo romanzo di Susan Hill degli anni
’80 che ebbe un grandissimo successo e fu oggetto di una trasposizione
teatrale e di una televisiva.
La scelta del soggetto e di una star del calibro di Daniel Radcliff, nasce
dal desiderio di rilancio della storica casa di produzione inglese Hammer
fondata nel 1934.
La storia è ambientata in epoca vittoriana e ricalca i grandi temi del
genere horror: la casa infestata, il villaggio isolato su cui incombono
macabre superstizioni, l’immaginario gotico ottocentesco. Lo sforzo è stato
quello di trasporre la psicologia del protagonista in chiave contemporanea,
Arthur è guidato dal pensiero della morte della moglie e questo è il vero
filo conduttore della vicenda. “La ragione per cui rimane in quel luogo e
tenta di trovare il fantasma di una donna morta sta nel fatto che in lui c’è
un desiderio nascosto, un impulso a cercare una sorta di conferma che sua
moglie si trovi in un posto migliore” dice Daniel Radcliff la cui sfida è
stata quella di rendere la personalità di un uomo distaccato, inaridito dal
dolore.
“Ci sono dei momenti in cui non dovresti essere sicuro di ciò
che sta pensando Arthur, sai che probabilmente non si tratta di pensieri
felici ma non sai il perché. Penso che l’ambiguità lasci spazio alle
emozioni”.
La sceneggiatrice spiega di aver fatto riferimento ad alcuni famosi esempi
di J-Horror come The Ring e
The Grudge: “L’horror
giapponese ha molto in comune con le classiche ghost stories vittoriane,
sono spesso devastanti per quanto riguarda la sfera dei sentimenti, ma sono
anche puramente paurose”.
Proprio sul concetto di “puramente pauroso” il film scricchiola e rivela la
sua debolezza. Nel tentativo di mantenere puro il meccanismo narrativo del
genere il film scivola nell’ovvietà. Lo sforzo di giocare sulla visione
periferica è così evidente da non essere efficace e si ripete in una
stucchevole ridondanza sottolineata da roboanti effetti sonori. Lo conferma
l’uso della scenografia di Kave Quinn: “Una ghost story è qualcosa che non
puoi proprio vedere del tutto, qualcosa che sta negli angoli
dell’inquadratura e qualcosa ai lati. Questo è ciò che abbiamo creato nella
scenografia”.
Particolarità del film è che non è stato girato in 1.85:1 ma in 2,35:1, la
proporzione superwide dei grandi film western.
24:03:2012 |