wild salome

di Al Pacino

con Al Pacino, Jessica Chastain, Kevin Anderson

  di Gabriele FRANCIONI

 

30/30

 

Desidero, Ergo Sum

 

Ciò che maggiormente colpisce nel testo teatrale di Oscar Wilde, portato in scena e poi filmato da Al Pacino, è la sua capacita ritmica di sfondare la totalità puramente visiva delle immagini - corpi seduti sempre parlanti e voce come musica, pur senza l’apporto di Strauss - per organizzarsi intorno ad un nucleo (di volta in volta la voce stridula di Erode o il viso di Salome o la grotta di Jokanaan), che costantemente rompe la catena associativa dello sguardo e definisce improvvise accelerazioni.

Queste diventano aritmie quando passiamo, in preda a concitazione della m.d.p., dal set congelato del piccolo teatro losangelino in cui va in scena SALOME, al backstage sghembo e quotidianissimo dove invece si recita a braccio la tensione per i soldi che finiscono, mettendo a rischio le repliche.

Pacino traccia i percorsi di una vicenda senza racconto, (im)mobile intorno ad una circolarità senza reale sviluppo, che è quella del desiderio: desiderio di avere la figlia di Erodiade; desiderio di rifare al meglio il testo di Wilde; desiderio di non invecchiare o, perlomeno, di morire/finire sul palcoscenico.

Saltiamo negli studi di una radio californiana, che investiga i motivi di un fallimento (l’attore-regista affronta con grazia e passione la critica feroce, che non accetta la riduzione dell’opera a semplice LETTURA del testo wildeano), ma subito dopo camminiamo per Londra, sulle tracce del Wilde storico, immersi in brevi ma straordinari inserti durante i quali è lo stesso Pacino, voce narrante e guida, a farci da Virgilio ricollocato nei gironi infernali di un’Inghilterra che nulla perdonava all’autore di DORIAN GRAY. Ennesima location, ennesimo u-turn: il deserto.

Tutti questi cambi di ritmo infrangono le catene della rappresentazione e della nominazione, iscrivendovi lo spazio del corpo sempre desiderante. Ogni segmento di film nel film confluisce vitalisticamente in quello successivo, in un processo di vasi comunicanti che continua oltre la fine della pellicola. è la volta di tornare in scena. Attenzione: la buona riuscita del film è più importante di quella della riduzione teatrale, pensata e realizzata come parata immobile di attori-paletti tra i quali la m.d.p. serpeggia sulla linea di uno slalom immaginario e dove gli unici altri a muoversi e, appunto, desiderare, sono Erode e Salome.

Al Pacino, poi, comprende perfettamente come la tessitura dialogica del testo di Wilde sia strutturata a mo’ di polifonia di frasi musicali, accostate contrappuntisticamente Non c’è un vero dialogo tra i personaggi. Ognuno di essi, semmai, scandisce ritmicamente frasi che s’intrecciano a quelle dell’altro quasi a definire una rete (dis)armonica.

WILDE SALOME va ascoltato e percepito sulla pelle dei sensi, più che analizzato.

è l’unico esempio plausibile, alla Mostra di quest’anno, di “cinema dei corpi”, che faccia uso appropriato del singolo attore-locomotiva (si vedano a questo proposito le recensioni di SHAME, HAIL e SAL, N.d.R.).

Pacino-corpo fluttua nello spazio totalmente metaforico del testo, sino a farsi silenzioso e rigido solo nell’atto di passare il testimone a Salome, appena prima della danza dei sette veli: il corpo fisico che ha girovagato per il mondo alla ricerca del movimento fine a se stesso, alla ricerca retrograda della giovinezza, si fa parola ritmica in bocca ad Erode e Desiderio Assoluto che lo possiede mentre osserva, muto, Salome in preda a identico assoluto desiderare (Jokanaan).

Il tragitto del desiderio, però, non ricrea la vita, non riporta giovinezza, non riporterà in vita il Battista:è solo linea di morte.

Il regista e attore, con un colpo di genio, ha articolato il suo non-film sulla non-riduzione teatrale attraverso una scrittura che in realtà è fatta di musicalità orgiastica ed ipnotica d’immagini-note e di parole-note riversantisi le une sulle altre e reiterate in maniera quasi rituale.

 

Al Pacino, in definitiva, sa di trovarsi di fronte a un testo che fa danzare le parole; dove i personaggi non esistono e sono solo l’elusiva volontà desiderante che li muove; dove la musica sottintesa vale quanto la frase scritta; dove la possibilità del taglio di montaggio, similmente a una cesura o a un enjambement, avvicina il film alla poesia piuttosto che alla prosa, rendendolo, come voleva Paul Valery, “un’esitazione prolungata tra il suono e il senso” e, diremo noi, tra l’immagine e il significato.  Menzione obbligatoria, oltre che per la voce asessuata di Erode,  anche per Jessica Chastain. Siamo tutti Jokanaan, quando dice:” Se tu mi avessi guardata, mi avresti amata. Lo so bene che mi avresti amata, e il mistero dell’amore e più grande del mistero della morte”.

 

09:09:2011