Nel 1995 Emir Kusturiça annunciò il ritiro dalla
regia e, con una certa dose di crudeltà, possiamo dire oggi che è stato di
parola.
Dopo il crollo del Muro, le due Palme d’Oro, l’Inizio della Guerra in
Yugoslavia e le Minacce di Morte (era amico di Miloseviç), c’erano tutte le
premesse per nascondersi in un qualche buen retiro a soli 41 anni.
In questi dieci anni K. È stato “altrove”. Ha, cioè, trovato il retiro:
a) nella sua mente e nella dimensione onirica
che ha sempre contrassegnato i suoi film, dove poteva continuare a credere
che la Jugoslava fosse ancora intatta e amministrata dal mitico Tito;
b) nel fare musica coi “No smoking”, la unz-unz-trash-band di rom-rock con
la quale suona (?) da sempre;
c) nella no man’s land del continuo traslocare & viaggiare, tra
Parigi e Beograd, Venezia e Cannes, dove vi può capitare d’incontrare il
compagno Emir insieme a moglie, figli & slivoviz.
Il regista zingaro bosnjaco-serbo è in fuga o in viaggio d’affari, braccato
da una realtà che ormai gli sta stretta e che differisce troppo dal sogno
fanciullesco di un eterno secondo dopoguerra vissuto magicamente e
candidamente tra Adriano Celentano e melodie slave, tra Fellini e Milos
Forman.
Dispiace infinitamente che le cose siano andate diversamente da come lui e
tutti noi ce l’eravamo immaginate, ma da qui a trincerarsi ostinatamente in
un “al di là” dal Reale ce ne passa.
La vita non è affatto un miracolo e non consente più i sorvoli, sul letto a
due piazze, di paesaggi e città affatto diversi da quelli rappresentati ne
LA VIE EST UN MIRACLE.
Ne consegue che quest’ultimo (e definitivo?) film raccolga in maniera
disordinata e distratta tutto il vocabolario kusturiçiano, riciclato
paradossalmente – e fuori tempo massimo – per rappresentare (ma senza
guardarla in faccia) proprio la guerra iniziata nel 1991.
L’incongruenza è palese: come può, ora che si trova agli antipodi dalla
Storia, descrivere qualcosa che richiede massima lucidità d’analisi del
contesto socio-politico, anche se a conflitto terminato? Crede forse, il
nostro, che l’essersi assentato “durante” gli permetta di commentare il
“dopo”, a bocce ferme, con la calma (?) ritrovata di chi non si è sporcato
le mani? La pellicola cerca, infatti, di contrastare l’orrore della materia
trattata con un surplus immaginifico e una ridondanza acustico-visiva,
che sono come un velo (trasparente) posto di fronte ai corpi e alle anime
disposti sul campo di battaglia.
EK infila gli occhiali da sole e intravede così solo ombre indistinte,
“fantasima” di qualcos’altro.
Fin dalle primissime scene, L.V.è
U.M. si mostra per quello che è: una gigantesca sarabanda che muove
ostilmente verso il povero spettatore, con ogni prevedibile strumento preso
dalla toolbox kusturiçiana. Cani urlanti e coca in pista da sballo. Cibo
matto e macchine semoventi. Oche, carne, spari, mogli e puttane. Siamo
risucchiati in un “casino” che tenta di corromperci e invece ci devasta e fa
sperare in un’improbabile oasi dei sensi. Che non arriva o arriva troppo
tardi, quando lo spettatore disattento si è arreso a cotanto apparato multi(im)mediale
e, dopo aver riso della tragedia, si concede - poco convinto - anche un po’
di partecipazione.
L’intreccio non è tale, perché si procede tra blocchi slegati del racconto.
Il figlio del protagonista è chiamato dall’esercito e non dal Partizan
Beograd (calcio ludens, sogno, fuga etc), ma di quello che gli capita
non vediamo alcunché. La moglie salta sul carro di un fisarmonicista dal
fascino invisibile (ancora: musica ludens……) e lascia il proscenio al
poveretto, su cui crolla l’intero film. Ma anche lui avrà la sua dose di
divertimento e di decentramento rispetto al cuore della vicenda: una
bosniaca gli capiterà in casa, pronta per un baratto col figlio di lui, nel
frattempo fatto prigioniero dai connazionali di quella.
Parte forse un ragionamento sul conflitto tra le due etnie che si scannano
sui vari fronti di battaglia?
Assolutamente no: i due cominciano a “volersi”, si attraggono, uniscono le
loro solitudini e vagamente apparecchiano una qualche forma di
innamoramento.
Come Emir, anche loro, sul lettone della
Fantasia, lasciano cadersi addosso il mondo sub specie di bombe, detriti,
animali (...).
La morte di qualcuno è messa in scena quasi
fosse uno spettacolo di marionette, coperta dalla musica, illuminata dal
sole e specchiata dalla neve: è bellissimo il contrasto rosso su bianco del
sangue su quella, ma non siamo alla recita scolastica e non c’è alcun
robertobenigni nei paraggi, e nemmeno qualche toninoguerra a raccontarci il
falso, che tutto è ottimismo e l’amaro calice va bevuto con chili di
dolcificante.
Manca tutto in questo film, manca la coralità di UNDERGROUND, dove il
meccanismo funzionava perfettamente; manca il disincanto acido di ARIZONA
DREAM, che metteva al centro la critica verso i falsi miti americani. Ora K.
È il re del “Serbian Dream”, pessima imitazione di quello – appunto – made
in USA.
LA VITA E’ UN MIRACOLO mette anche in scena gli “slegàmi sociali” prodotti
la guerra, ma senza dramma e con tanta commedia. Luka tornerà insieme alla
moglie, il figlio tornerà allegro dal fronte, il film tornerà nell’oblio.
Non credete a chi vi dice che il film vale per quelle due o tre scene
“memorabili & poetiche”: sono cascami di una capacità di mettere le cose in
poesia, che non hanno più alcuna forza e alcun senso.
Voto: 18/30
31:03:2005 |