vincere

di Marco Bellocchio

con Filippo Timi, Giovanna Mezzogiorno

di Marco GROSOLI

 

30 e lode

 

La vena archeologica dimostrata da Bellocchio in Buongiorno, notte viene confermata in maniera grandiosa in questo nuovo Vincere, che si butta anima e corpo in uno dei più decisivi buchi neri della Storia italiana, forse ancor più della fine del compromesso storico trascinata dalla fine della vita di Moro. Non si tratta solo del fascismo, non si tratta solo dell’ascesa del totalitarismo mussoliniano: si tratta dello stabilizzarsi di un dispositivo di potere eminentemente spettacolare. Ida Dalser, prima moglie di Mussolini, è una che è rimasta sempre fedele e attaccata (anche a costo di finire in manicomio) al Mussolini prima maniera, quello che diceva “impiccheremo l’ultimo Papa con le budella dell’ultimo Re”, e non quello terminale che firma il Concordato col vaticano. Un Mussolini che, realizzando il suo sogno, letteralmente scompare e diventa immagine: man mano che il film procede, il Duce non è più interpretato da Filippo Timi (strepitoso) ma è solo un’ombra in bianco e nero lasciata intravedere dai cinegiornali. La Storia diventa Spettacolo, e ne viene inghiottita; le molte risse tra fazioni politiche opposte che avevano luogo tra il pubblico dei cinema dell’epoca, sono inquadrate da Bellocchio come sagome nere sullo sfondo bianconero dell’immagine muta sullo schermo dietro di loro. Nel momento stesso in cui, incandescente, si fa, la Storia è già cinema, è già spettacolo.

Quando vuole fare la Storia, Mussolini è vivo, in carne ed ossa. Quando la fa direttamente, non è che un’immagine. E infatti Filippo Timi tornerà a interpretare non Benito ma Benitino Mussolini, il figlio avuto della Dalser, che con una geniale intuizione scimmiotta il padre visto nei cinegiornali. Più ancora che mera immagine, Mussolini è un’immagine che imita se stessa per fingersi reale: il Mussolini che fa la guerra è solo la caricatura del Mussolini del 1914 che la guerra voleva solo farla. Ovvero quel giovane Mussolini che, dopo l’amplesso con Ida, si sporge dal balcone e vede già le folle che riunirà davvero solo anni più tardi, grazie al cozzare operato dal montaggio tra il film “effettivo” e le immagini di repertorio. Col tempo, dunque, questa “frizione” tra il personaggio di Mussolini e le immagini di repertorio viene meno, perché il duce diventa esclusivamente immagine di repertorio, cinegiornale, spettacolo. Lo scarto si richiude.

Per Ida invece lo scarto tra la Storia e la sua possibilità rimane sempre aperto. Fino alla fine, anche quando Mussolini la rinnegherà e la farà confinare presso i famigliari (e poi al manicomio) e togliere il figlio, la strenua fedeltà di Ida al Mussolini “socialista” è sempre e solo un’altra Storia possibile. Dai loro focosi anni dieci passati insieme giù giù lungo tutto l’incubo dell’Italietta piccoloborghese (il “confino” presso la zia) fino al manicomio (che tutto sommato è un posto anche più tranquillo di ciò che sta fuori), Ida Dalser non si arrende mai, e si proclama moglie di Benito Mussolini benché nessun documento sia lì a provarlo. Lo scarto rimane e non smette mai di avvertirlo; e infatti, lei al cinema ci va ancora, e là avverte sulla propria pelle, fino alle lacrime, la scissione con se stessa: Chaplin in uno schermo della sua provincia che riabbraccia il suo bambino è la sua stessa storia di madre che non può riabbracciare Benitino, ma è anche l’utopia che non può raggiungere. Questa scissione è la Storia come pura apertura, contro il suo realizzarsi (il Duce), che è ormai integralmente Spettacolo.

A garantire quest’apertura è il cinema – che Bellocchio non lesina affatto: assecondato dalle palpabili oscurità della fotografia di Daniele Ciprì, passa furiosamente dallo scatenato caos stilistico barocco/futurista (scritte che compaiono a tutto quadro…) della prima parte ai suoi soliti “tizzoni” caldissimi che ribollono sotto la scorza della normalità piccoloborghese nella seconda – e viceversa, in una continua doccia scozzese registica, che carica ogni inquadratura di continui sbalzi di pathos. Il cinema, quella dinamite che, nelle parole di Walter Benjamin, doveva far esplodere (e lo ha fatto) un “mondo simile a un carcere”. Benjaminianamente, è ciò che lui chiama “immagine dialettica” a compiere il miracolo: il passato che immediatamente rivive nel presente. Ovvero: le immagini di repertorio, qui abbondantemente utilizzate, tranches di passato risorte, che (sempre secondo Benjamin) rivelano la co-presenza dei tempi diversi (anche per questo, a un occhio attento, Vincere è innanzitutto un film sulla devastante situazione in cui versa la sinistra italiana oggi), la frantumazione dell’illusione che esista un tempo continuo, omogeneo e vuoto.

Ciò che, guardacaso, costituisce la cornice del film: Mussolini lo inaugura proclamando davanti al suo uditorio “guardate il mio orologio: se non verrò fulminato prima che passino cinque minuti, avrò provato che Dio non esiste”. La linea del tempo anziché essere lineare si fa continuamente frastagliare da flash-forward (le foto indiziarie delle compagne di manicomio di Ida scattate prima del suo ingresso), flashback, sogni… Passano oltre due ore di film, ma i cinque minuti (cui si ritorna nel finale) non sono mai passati. La Storia, è ancora da scrivere.

 

24:05:2009

vincere
Regia Marco Bellocchio

Italia 2009, 128'
DUI: 20 maggio 2009

01 Distribution

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