Ricardo Villalobos è uno dei DJ più quotati del mondo.
Romuald Karmakar ce lo fa conoscere nella più semplice e efficace delle
maniere. Ovvero: alternando lunghissime sequenze (spesso coincidenti con una
singola inquadratura) in cui il DJ è all’opera in qualche club, a
lunghissime sequenze (anche queste spesso coincidenti con una singola
inquadratura) in cui il DJ lavora nel suo studio e/o è intervistato dal
regista. Anche se più che intervistato sarebbe il caso di dire “imbeccato”,
perché poi Ricardo è capacissimo di monologare da solo su quello che fa e
quello che è.
Le sequenze/inquadrature sono perlopiù a macchina fissa ma intelligentemente
posizionata in modo da cogliere la situazione tutta dentro i quattro bordi
dell’immagine, senza che questi la costringano troppo rigidamente. Non la
fissità contemplativa studiata ad arte, ma un senso di stare dentro il tempo
e lo spazio della situazione captata dalla macchina da presa. Il DJ sulla
sinistra, il pubblico sulla destra, le luci in alto. Tutto qui: non c’è
bisogno di altro. E non c’è nemmeno bisogno di forzare troppo a livello
compositivo. Se c’è bisogno di qualche lieve movimento di aggiustamento del
quadro per seguire questo o quell’elemento che si sposta, no problem. C’è
una situazione di partenza; questa prevede delle relazioni tra degli
elementi, e l’inquadratura non deve far altro che metterli in una stessa
“scatola”. A noi spettatori sta invece lasciarci assorbire nella lunga
continuità temporale per osservare da vicino il dispiegarsi di una
situazione. La quale può sembrare andare avanti sempre uguale come va avanti
sempre uguale un brano di Techno o di House – grazie al cinema, però,
entriamo nelle pieghe di ciò che sembra sempre uguale, cioè il tempo, e
scopriamo letteralmente “un” mondo dentro “il” mondo.
Vedere Villalobos che lavora e che spiega gli ingranaggi della sua arte a
noi e a Karmakar dietro la macchina presa è un’esperienza letteralmente
ipnotica. La banalità di questa fascinazione è anche la sua forza: vedere
qualcuno immerso nella sua attività e nella spiegazione di essa rivela
letteralmente un mondo. “Questo è un brano che utilizzo per mettere la
tensione in stand-by in attesa di un climax”, “questo e questo cavo in
questo pannello modulare producono quest’altro suono”: la full immersion nei
tecnicismi e nella capacità artigianale di manovrarli ci mostra, finalmente,
quanto l’ovvio sia in realtà un abisso senza fondo di potenzialità. Un
abisso in cui lo spettatore è chiamato a tuffarsi partecipando della
continuità nel tempo di una semplicissima situazione spaziale.
“Questo mixer è come che vivesse di vita propria. Anche quando chiudo lo
studio e me ne vado a casa lui continua a fare suoni per conto suo, che non
si sentono solo perché il volume è spento…”
09:09:2009
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