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il villaggio di cartone di Ermanno Olmi con Michael Lonsdale, Rutger Hauer e con Massimo De Francovich, Alessandro Haber |
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28/30
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Film testamentario, se mai ce n'è stato uno. È un grido disperato che, come ogni opera autenticamente politica, sa far tralucere un prezioso raggio luminoso di speranza proprio dentro alla più nera disperazione. Ed è un grido che, con ogni evidenza, ha molti tratti autobiografici. Un vecchio prete si vede sottratta la propria parrocchia, e i propri simboli sacri dismessi. Diventato all'improvviso un semplice edificio vuoto (e semi-fatiscente) diventa l'improvvisato alloggio di alcuni extracomunitari scampati ai feroci rastrellamenti che imperversano nel mondo esterno. Il quale non si vede mai. Solo l'interno della chiesa si vede: Olmi sa bene che la dimensione politica non risiede nell'attualità notiziaria (che può essere dunque tranquillamente trascurata), ma nel rendere pubblica e condivisa la propria crisi. Il suo prete lo ammette apertamente: siamo proprio sicuri che i codici a cui mi sono legato per una vita intera siano quelli giusti? Che quegli occhi femminili incontrati in una sera di festa mi avrebbero portato alla perdizione allontanandomi dal sacerdozio? E la croce che hanno appena portato via da sopra l'altare – non è forse la stessa che campeggia dietro le rudimentali vele ormai divelte dei barconi di disperati che approdano sulle nostre coste, così come si vedono sugli schermi televisivi? Ma se è a loro che la carità cristiana deve rivolgersi, quale cristianesimo dovremmo avanzare? Quello del "porgi l'altra guancia" o quello combattivo con il coltello tra i denti verso le ingiustizie? Il villaggio di cartone pone molte domande. E le lascia allo stato di contraddizioni irresolubili, inevitabilmente problematiche, mai rassicurantemente a senso unico. Come da insegnamento paolino, oppone alla prepotenza del mondo la sua debolezza. Ci mette davanti un vicolo cieco, perché sa che solo così le gambe hanno la forza di saltare in alto al di là di esso ("Se non saremo noi a cambiare la Storia, sarà lei a cambiare noi", recita la didascalia finale). Ci dice chiaro e tondo che il nostro occidente che non può che morire e far posto ad altri può, tuttavia, avanzare una timida, sparuta, ultima chance di universalità costruttiva nella comune consapevolezza globale di essere ormai tutti indistintamente orfani della natura (il decisivo quaderno trovato sulla spiaggia, che passa di mano in mano, reca scritto – in arabo – proprio questo). Olmi ci propone tutto questo con una forma franta, dolorosa, spaccata tra un affidarsi a copiosi dialoghi impossibili da ridurre a una sola direzione ideologica, e la magia tutta visuale del suo ormai rodatissimo dirigere "al gerundio plurale", inanellando gli uni con gli altri tempi diversi, ognuno dei quali scorre per conto suo nel liquido lavorio della durata. Il suo occhio è ancora assai vitale: le spoglie scenografie della sua chiesa vengono trasfigurate in bellezza non senza (anzi: grazie a) il sapore aspro della dissonanza, della ruvidità di quelle linee spezzate, di quel blu scuro, della luce che irrompe aggressiva. La chiesa cattolica non è e non può essere quella che si fa bella dei moralismi, e che divide i clandestini dai legittimi, ma quella che ha il coraggio di portare alla luce del sole gli squilibri, le discontinuità e le dissonanze di un mondo la cui divinità è inseparabile dalla propria endemica imperfezione.
09:09:2011 |
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