Un geologo viene mandato in una zona desolata dell’entroterra
brasiliano per dei rilievi. Non lo vediamo mai: sentiamo la sua voce, e
vediamo inquadrature tutte piuttosto leccate della terra in questione.
Il geologo parla, parla, parla. Si rivolge alla fidanzata, una botanica
rimasta in città. La sua solitudine è, mooooooolto wendersianamente,
correlata oggettivamente della perfezione algida e inerte delle immagini che
vediamo sullo schermo.
Queste le premesse. Per un film mutuato da Wenders, si è visto di peggio. Il
film si lascia vedere piuttosto bene, ma il problema è che, arrivati alla
fine, le premesse sono rimaste le premesse. Il partito preso diaristico non
si è mosso di un passo, e si è esibito bellamente dall’inizio alla fine
senza colpo ferire. L’ultima inquadratura è, non a caso, quella di alcuni
tuffatori che si buttano da altezze da capogiro: ciò che il film non ha mai
fatto, preferendo restare rintanato nella perfezione inattaccabile del suo
disegno strutturale. Nella malinconia un po’ facile di un soggetto che non
può fare altro che contemplare un oggetto troppo compiuto in sé per essere
avvicinabile, così come si pensa malinconicamente a un amore lontano.
Prendere o lasciare: un esperimento in qualche modo inattaccabile,
post-wendersiano nel senso tutto sommato migliore e senza sgarri. Ma che
proprio in questo trova anche i suoi limiti – che non basta qualche
incursione antropologico-documentaristica (tipo le interviste alle
prostitute) a redimere.
12:09:2009
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