Qualcuno si ricorda ancora
di Waking life? Qualche anno
fa il presuntuoso Ruchard Linklater presentò a Venezia un presuntuoso
filmetto girato in digitale e "ripitturato" in postproduzione in modo da
assomigliare a un film di animazione. Il tutto condito con suggestioni
pseudodickiane che tanto in là non andavano.
L'israeliano Ari Folman ritenta la stessa chiave formale. Stavolta il
pretesto è la sua esperienza personale di ex soldato in forze in Libano nei
bollenti anni '80, testimone (o qualcosa di più? Ma allora fino a che punto?)
del massacro di Sabra e Chatila. Tutto il film si snoda tra interviste agli
ex commilitoni e ricordi personali per riempire l'angosciante vuoto di
memoria di Folman verso quegli eventi e la sua (eventuale) partecipazione).
Folman si lascia Linklater alle spalle di parecchie lunghezze. E si capisce
presto il perché: il suo retroterra, quello ebraico, è quello che più di
tutti ruota intorno all'impossibilità di rappresentare e visualizzare ciò
che trascende (Dio, certo, ma anche, più tardi e per ragioni inverse, il
massacro di Auschwitz). Chiaro dunque che lui sia più a proprio agio con una
realtà che non si può far vedere se non con l'ultrafinzione dei disegni
animati.
Per questo, a differenza di Linklater, Folman si fa strada in un tortuoso e
complesso percorso concettuale tra filosofia della storia, psicologia,
fenomenologia della memoria, teoria della rappresentabilità eccetera
eccetera, concentrandosi però su un geniale styrumento figurativo: la luce.
L'insistenza sui riflessi delle foglie degli alberi sui personaggi, sui
cambiamenti luminosi da notte a giorno e su questo genere di sfumature,
volge l'accento precisamente su quanto la rappresentazione (il disegno) può
riprodurre meno di tutto. Passi il movimento, passi la somiglianza di cose e
corpi, ma la luce no, quella non si tocca.
E invece, giustamente, Folman la tocca. Perché non si accontenta
dell'ideologico bivio sogno/realtà, e li riannoda in modo che il traumatico
svelamento finale (le immagini di repertorio "vere" di Sabra e Chatila che
introducono i titoli di coda) non sia la semplice inversione/smentita di
quanto ha preceduto, bensì il "lato B" del ricordo distorto (virato in toni
lirico/onirici) che dell'evento aveva il protagonista. E la testa sbucante
dalle macerie che ossessiona i ricordi romanzati dell'ex commilitone la
troviamo altresì nelle immagini "vere" del repertorio.
La "realtà" non è allora un buco nero irrappresentabile, ma ciò che sta
proprio lì, sotto alla coltre di "finzione immediata" che vi depone il
nostro occhio irrimediabilmente condizionato da ricordi che non possiamo
dominare. La sgranatura video del repertorio finale non è che l'apparenza
intrecciata incestuosamente a quell'apparenza simile ma diversa che è il
disegno animato. E il vero trauma è non potersi liberare dell'apparenza,
nell'accorgersi che ogni istante è una "guerra" in cui l'istante stesso si
scontra con l'essere un labile e illusorio velo (di Maya) nell'inesorabilità
del tempo.
Sarà per questo che l'apparenza è vista e riconosciuta con paura nel nemico
- nei libanesi ossessionati dall'immagine del leader Bashir che campeggia
ovunque. L'iconoclastia ebraica, allora, si ferma indecisa e turbata sulla
soglia dell'iconofila del cristianesimo, per eccellenza la religione
dell'immagine.
20:05:2008
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