
VAJONT è un film circolare. Circolare perché inizia dove poi finirà: un
cimitero che tanto somiglia a quelli dei caduti in guerra, dove le croci
sono moltissime e tutte identiche. Un luogo dove, in qualche modo, i fatti
che saranno l'anima del racconto trovano un'efficace quanto tremenda sintesi:
quella è la conseguenza di una serie di prepotenze ai danni della gente
di una valle, morfologicamente troppo seducente per chi, senza conoscerne
gli abitanti e la conformazione geologica, ha creduto senza ripensamenti
di trarne un profitto contro natura.
Ecco
allora il primo punto di forza del film: se è vero che gli interessi e
le manovre alla base di quanto accaduto sono ignoti ai più, ciò non vale
per il 9 ottobre '63, nella cui notte la roccia piombò in acqua e Longarone
venne sommersa. Chi va al cinema almeno questo lo sa: diversi paesi e
moltissimi uomini sono scomparsi quella sera. In un certo senso, allora,
conosce già "il finale" della storia, per cui potrà concentrarsi sui perché
di una simile conclusione, rileggendo gli episodi del film alla luce di
un esito tutt'altro che improvviso.
Perché
la prima, e più evidente, chiave di lettura per l'operazione di Martinelli
è proprio quella dell'impegno civile. Con lui - e basta osservarlo mentre
dialoga con il pubblico per capire quanto forte sia la sua passione -
torna a farsi vivo un cinema che, fino a vent'anni fa e con qualche emergenza
posteriore, nasceva proprio con l’esigenza di presentare all’opinione
pubblica fatti di interesse nazionale, spesso poco noti o mutili nelle
loro ragioni più profonde. Sono ancora pochi infatti a conoscere gli effettivi
interessi che hanno fatto del Vajont una simile sciagura, ma a giudicare
dai suoi esordi mediatici e dalle reazioni del pubblico in sala, non è
difficile prevedere, in questo senso, un successo per il film. Al di là
però dell’indubbio potenziale divulgativo e politico, alcuni superstiti
e l’ex sindaco Zondan Delfino hanno criticato l’intero progetto e il mancato
rispetto della verità storica, facendo riemergere una questione vecchia
quanto il cinema. Se infatti un film è solo la rappresentazione
forzatamente soggettiva di eventi reali, alla prova dei fatti chi assiste
ad un’interpretazione altrui della propria vita, è spesso portato a dimenticarne
l’aspetto teorico, sentendosi tradito. VAJONT ci sembra, da questo punto
di vista, un’opera equilibrata, laddove - fatta eccezione per personaggi,
come Tina Merlin, sorta di anti-Cassandra un po’ troppo a tutto tondo
- i torti storici (un solo geologo in nome dei molti che si sono succeduti)
sono figli di una necessità di sintesi drammaturgia, ovvia quando rimane
chiaro l’obiettivo di una diffusione al pubblico.
Ma
il solo valore civile non può bastare a fare di VAJONT un’opera completa,
qualcosa di diverso dalla massa di quel cinema italiano medio, senza storie,
costretto pressoché sempre a rifarsi a foschi avvenimenti di cronaca,
senza approfondirne più di tanto le ragioni. Il merito di Martinelli,
che è tale perché sull'impegno civile avrebbe potuto tranquillamente sedersi,
sta nel cercare di raggiungere - e non solo per ovvi scopi commerciali
- il più vasto pubblico possibile, anche oltre confine. Una scelta portata
avanti in due direzioni: raccontando una storia pressoché universale e
senza negare - cosa, da noi, piuttosto inconsueta - l’importanza degli
effetti speciali. Il film procede come un thriller atipico, e la suspense
non nasce dall’imprevedibilità degli eventi e del finale, ma in virtù
di un progressivo accumulo di avvisaglie "naturali" e di storie individuali
- come quella, presa ad esempio, di Ancilla (Anita Caprioli) e il marito
- con le quali lo spettatore è portato inevitabilmente a solidarizzare.
Fatte salve le ottime intenzioni - è facile che l’elevata spettacolarità
porti al film una certa fortuna anche all’estero - il finale, impressionante
da un punto di vista puramente "concettuale", è visivamente un po’ più
debole del previsto. Colpe da imputarsi forse alle scelte di regia (capita
che la macchina da presa accompagni la caduta dell’acqua, evidenziandone
la natura digitale e rubandole il fiato) o magari al "limite" proprio
del cinema, costretto a mostrare ciò che, con molta più forza, le parole
di Marco Paolini sapevano evocare.
Voto: 29/30
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Anche
la Rai partecipa al ricordo della strage di Longarone, mandando in onda “Vajont”,
un film televisivo di propria produzione, diretto da Renzo Martinelli (8
ottobre 2003, Rai uno). Il film tenta di ricostruire gli anni che
precedono la tragica notte del 9 ottobre 1963: dal progetto di costruzione
della SADE, alla consapevolezza dei rischi sulla montagna derivati
dall'invaso, alla denuncia sull'Unità della giornalista Tina Merlin.
Un film, forse più simile a un “melò che si avvicina al fumettone rosa”
(Enrico Astolfi), vuole far luce su una pagina nera del dopoguerra in
Italia, analizzando gli elementi che vennero sottovalutati e di cui tutti
erano a conoscenza.«Quanti Vajont ci saranno ancora?” si chiede il
regista“ Quell'Italia del '63 con la sua rincorsa al benessere economico
non c'è più. Non ci sono i partiti di allora, ma fatti come quello ce ne
sono ancora tanti». Martinelli si interroga ricordando il lungo lavoro di
preparazione e di elaborazione alla base del suo film. Preziosi sembrano
essere stati i consigli di Marco Paolini che per primo ha inchiodato
milioni di italiani davanti al suo Vajont nelle sale teatrali e poi in Tv.
Il risultato tuttavia è al di sotto delle previsioni, il film sorvola
infatti su importantissimi dettagli: incredibilmente, dei paesi sul monte
Toc, Erto e Casso, non viene mai pronunciato il nome; non si fa menzione
del geologo austriaco Leopold Müller, autore della più particolareggiata
relazione sulla diga; pochi e spauriti gli accenni sulle responsabilità
dello stato italiano, sulla complicità dell’ENEL (che ha patrocinato la
prima del film), sulle ridicole pene inflitte ai colpevoli, o
sull’incivile campagna di raccolta fondi che prosperò negli anni a venire.
Tutto il suo sdegno civile, Martinelli lo ha riversato nelle dichiarazioni
alla stampa, ma sembra dimenticarlo ad arte nelle sue immagini. In finis
il fatto che lo Stato sia lontano e assente, (sembrerebbe far intendere)
la sua innocenza o almeno la sua incolpevolezza, tanto più che l’allora
presidente del Consiglio non è mai nominato. Giovanni Leone, arrivò sul
luogo della tragedia qualche giorno dopo. Ad aspettarlo c'era il vice
sindaco di Longarone, Terenzio Arduini, che aveva perso il figlio e i
genitori e che suppliva il sindaco morto pure lui la notte del 9 ottobre
1963. Fu proprio il vice sindaco a chiedere a Leone: "Presidente,
chiediamo giustizia". Il presidente del Consiglio gli prese la mano e
rispose senza esitazione: "E giustizia avrete". Ma lo stesso Leone, sei
mesi dopo, caduto il Governo, diventa capo del collegio degli avvocati
della Sade-Enel, la controparte, contribuendo alla sua sostanziale
assoluzione. Forse non appagata da questo tentativo di catarsi semi
fallito, la Rai ripropone l’argomento sul satellite (RaiSat Extra) ”VAJONT
40 - NEGLIGENZE E SETE D’ORO” (mercoledì 8 ottobre 2003, ore 18.30 ed in
replica il giorno successivo ore 11.30).
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