Si sa, il cinema non è più
una fabbrica. Non è più un’industria, è qualcos’altro, un po’ museo del XX
secolo, un po’ periferia della piovra mediatica e del capitale finanziario…
L’ultima fabbrica del cinema è senza dubbio la Pixar (basterebbe un’occhiata
ai titoli di coda), sublime catena di montaggio molto più dell’odierna
Hollywood, pasta dentro cui più o meno tutti hanno le mani. Ma anche la
Pixar non può prescindere dalle circostanze, le quali oggi come oggi
vogliono che non sia più semplicemente questione di “produrre” in catena di
montaggio un oggetto di intrattenimento da consumare; l’odierna palude
mediatica rende tutto, come minimo, infinitamente più complicato. Arriva un
momento, perciò, che la Pixar non ha più nulla da vendere se non il proprio
stesso, giovane e già vecchio, mito: cioè il fatto stesso di essere una
fabbrica (di cosa poi? Di oggetti quanto mai immateriali come i cartoni
animati – sublime ironia). Già Cars
e Wall-E erano con ogni
evidenza improntati sull’anacronismo che è ormai diventata la tecnologia
industriale.
Ma è solo con questo Up che
la Pixar può fino in fondo reclamare per sé la nostalgia del cinema (cioè
della fabbrica), come fanno i Lucas/Spielberg o gli Eastwood. Come in
Gran Torino, il protagonista
è un vecchio vedovo che non cede un millimetro della sua villetta a ciò che
ha soppiantato la fabbrica (là un quartiere residenziale che senza
un’industria di riferimento è lasciato al degrado di un melting pot
assortito alla meno peggio, qui i grattacieli del terziario ultra-avanzato).
Ha conosciuto la moglie da bambino, entrambi appassionati per quelle
avventure in Sudamerica che potevano contemplare solo davanti a uno schermo
cinematografico, e vivere solo da turisti nella terza età. Sicché, ormai
costretto dagli speculatori a sloggiare, lascia andare migliaia di
palloncini legati alla sua casa, che la trascinano via – nelle cascate del
Sudamerica tanto sognate con la moglie. Lì, insieme a un piccolo boy scout
trascinato dietro per caso, finiranno finalmente in mezzo all’avventura.
Un’avventura che non li riguarda. Non solo perché riguarda un uccello
incantato che devono difendere da un esploratore che lo vuole impagliare,
proprio quel Charles Muntz che Carl aveva tanto ammirato sugli schermi dei
cinegiornali da bambino prima che venisse sbugiardato come impostore. Ma
soprattutto perché, più che film d’avventura,
Up è un film sul rovescio
dell’avventura. Su un’avventura solo in potenza, solo possibile, e che non
conta più sia vera o solo sognata. Di fatto, Carl e il suo piccolo amico ne
stanno ai lati, dell’avventura. Sì, ogni tanto (nei punti inevitabilmente
“caldi” della scaletta drammaturgica) vengono sballottati in qua e in là
vertiginosamente. Ma in tutto (tutto) il resto del film vengono fatti
ristagnare ai margini del possibile.
Non c’è più il ritmo
allucinante di Wall-E, e
anche qui sta la grandezza di UP. Non c’è più bisogno di tirare cazzotti
allo spettatore per intrattenerlo: si tratta piuttosto di fargli contemplare
la possibilità dell’intrattenimento. Il 3d, in questo senso, è rivelatore:
non c’è più l’ingenua velleità di sfondare lo schermo e andare verso la
spettatore. Piuttosto, il lavoro volumetrico sulle figure è costruito in
modo da valorizzare lo spazio in profondità: più che balzare fuori dallo
schermo con attrazioni frenetiche, il film sovente pare soffermarsi su campi
totali che, con la loro scansione sfalsata dei diversi piani
dell’inquadratura in profondità, segnalano allo spettatore che potrebbe
entrarci.
È questa forma dubitativa che il film riesce ad azzeccare. A nessuno frega
più niente di un cinema di animazione che si accontenti di raffigurare il
meraviglioso (e la stessa cosa, di converso, vale per “la realtà”), di
sconfiggere le leggi della finitudine e della gravità . E infatti il mondo
Disney subisce una feroce e definitiva irrisione qui, essendo gli scagnozzi
del cattivo cani con una voce artificale che è uno speciale collare a
fornirgli - e un animale con una voce appiccicata è la definizione quasi da
manuale dell’universo disneyano.
Ma vale la pena di tornare sulla gravità, perché è proprio questo il punto.
Per gran parte del film, Carl, a terra, è legato con una corda alla casa
che, per via dei palloncini, rischia di volarsene via. In questo paradosso
della (fanta)fisica sta tutto il film: il cinema di animazione non se ne fa
più niente di sconfiggere la legge di gravità, di svolazzare e di
teletrasportarsi: piuttosto, si tratta di smontare la gravità nel momento
stesso in cui è più evidentemente all’opera. Affermare la forza di gravità
(ancorando a terra qualcosa che non ci può stare) significa smentire
qualunque legge di gravità possibile. Una casa che svolazza grazie ai
palloncini viola la gravità, ma la viola anche di più un vecchio acciaccato
e malandato che si lega una corda ai fianchi per ancorarla
“gravitazionalmente” a sé e al suolo. È la gravità, primo e più pesante dei
principi di realtà, il primo meraviglioso abbaglio. Per questo, sfogliando
il “libro delle avventure” della moglie morta, Carl scopre le foto della sua
stessa vita coniugale: è la declinante vita suburbana del dopoguerra che non
possiamo (a prescindere dalle latitudini) non dire americano, quella che
ruotava intorno alla fabbrica e ai sogni da non poter realizzare, che ci
appare per quello che è stata: solo un sogno. Un’avventura confinata dove ha
da essere: nel possibile.
E quindi ancora davanti a
noi (e al piccolo boy scout amico di Carl), come tutto ciò che ci sta alle
spalle.
13:05:2009
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