up

di  Bob Peterson e Pete Docter

Animazione

di Marco GROSOLI

 

30/30

 

Si sa, il cinema non è più una fabbrica. Non è più un’industria, è qualcos’altro, un po’ museo del XX secolo, un po’ periferia della piovra mediatica e del capitale finanziario…
L’ultima fabbrica del cinema è senza dubbio la Pixar (basterebbe un’occhiata ai titoli di coda), sublime catena di montaggio molto più dell’odierna Hollywood, pasta dentro cui più o meno tutti hanno le mani. Ma anche la Pixar non può prescindere dalle circostanze, le quali oggi come oggi vogliono che non sia più semplicemente questione di “produrre” in catena di montaggio un oggetto di intrattenimento da consumare; l’odierna palude mediatica rende tutto, come minimo, infinitamente più complicato. Arriva un momento, perciò, che la Pixar non ha più nulla da vendere se non il proprio stesso, giovane e già vecchio, mito: cioè il fatto stesso di essere una fabbrica (di cosa poi? Di oggetti quanto mai immateriali come i cartoni animati – sublime ironia). Già Cars e Wall-E erano con ogni evidenza improntati sull’anacronismo che è ormai diventata la tecnologia industriale.
Ma è solo con questo Up che la Pixar può fino in fondo reclamare per sé la nostalgia del cinema (cioè della fabbrica), come fanno i Lucas/Spielberg o gli Eastwood. Come in Gran Torino, il protagonista è un vecchio vedovo che non cede un millimetro della sua villetta a ciò che ha soppiantato la fabbrica (là un quartiere residenziale che senza un’industria di riferimento è lasciato al degrado di un melting pot assortito alla meno peggio, qui i grattacieli del terziario ultra-avanzato). Ha conosciuto la moglie da bambino, entrambi appassionati per quelle avventure in Sudamerica che potevano contemplare solo davanti a uno schermo cinematografico, e vivere solo da turisti nella terza età. Sicché, ormai costretto dagli speculatori a sloggiare, lascia andare migliaia di palloncini legati alla sua casa, che la trascinano via – nelle cascate del Sudamerica tanto sognate con la moglie. Lì, insieme a un piccolo boy scout trascinato dietro per caso, finiranno finalmente in mezzo all’avventura.
Un’avventura che non li riguarda. Non solo perché riguarda un uccello incantato che devono difendere da un esploratore che lo vuole impagliare, proprio quel Charles Muntz che Carl aveva tanto ammirato sugli schermi dei cinegiornali da bambino prima che venisse sbugiardato come impostore. Ma soprattutto perché, più che film d’avventura, Up è un film sul rovescio dell’avventura. Su un’avventura solo in potenza, solo possibile, e che non conta più sia vera o solo sognata. Di fatto, Carl e il suo piccolo amico ne stanno ai lati, dell’avventura. Sì, ogni tanto (nei punti inevitabilmente “caldi” della scaletta drammaturgica) vengono sballottati in qua e in là vertiginosamente. Ma in tutto (tutto) il resto del film vengono fatti ristagnare ai margini del possibile.

Non c’è più il ritmo allucinante di Wall-E, e anche qui sta la grandezza di UP. Non c’è più bisogno di tirare cazzotti allo spettatore per intrattenerlo: si tratta piuttosto di fargli contemplare la possibilità dell’intrattenimento. Il 3d, in questo senso, è rivelatore: non c’è più l’ingenua velleità di sfondare lo schermo e andare verso la spettatore. Piuttosto, il lavoro volumetrico sulle figure è costruito in modo da valorizzare lo spazio in profondità: più che balzare fuori dallo schermo con attrazioni frenetiche, il film sovente pare soffermarsi su campi totali che, con la loro scansione sfalsata dei diversi piani dell’inquadratura in profondità, segnalano allo spettatore che potrebbe entrarci.
È questa forma dubitativa che il film riesce ad azzeccare. A nessuno frega più niente di un cinema di animazione che si accontenti di raffigurare il meraviglioso (e la stessa cosa, di converso, vale per “la realtà”), di sconfiggere le leggi della finitudine e della gravità . E infatti il mondo Disney subisce una feroce e definitiva irrisione qui, essendo gli scagnozzi del cattivo cani con una voce artificale che è uno speciale collare a fornirgli - e un animale con una voce appiccicata è la definizione quasi da manuale dell’universo disneyano.
Ma vale la pena di tornare sulla gravità, perché è proprio questo il punto. Per gran parte del film, Carl, a terra, è legato con una corda alla casa che, per via dei palloncini, rischia di volarsene via. In questo paradosso della (fanta)fisica sta tutto il film: il cinema di animazione non se ne fa più niente di sconfiggere la legge di gravità, di svolazzare e di teletrasportarsi: piuttosto, si tratta di smontare la gravità nel momento stesso in cui è più evidentemente all’opera. Affermare la forza di gravità (ancorando a terra qualcosa che non ci può stare) significa smentire qualunque legge di gravità possibile. Una casa che svolazza grazie ai palloncini viola la gravità, ma la viola anche di più un vecchio acciaccato e malandato che si lega una corda ai fianchi per ancorarla “gravitazionalmente” a sé e al suolo. È la gravità, primo e più pesante dei principi di realtà, il primo meraviglioso abbaglio. Per questo, sfogliando il “libro delle avventure” della moglie morta, Carl scopre le foto della sua stessa vita coniugale: è la declinante vita suburbana del dopoguerra che non possiamo (a prescindere dalle latitudini) non dire americano, quella che ruotava intorno alla fabbrica e ai sogni da non poter realizzare, che ci appare per quello che è stata: solo un sogno. Un’avventura confinata dove ha da essere: nel possibile.

E quindi ancora davanti a noi (e al piccolo boy scout amico di Carl), come tutto ciò che ci sta alle spalle.

 

13:05:2009

 up

Regia Bob Peterson e Pete Docter

Stati Uniti 2009, 96'

DUI: 15 ottobre 2009
Buena Vista

Animazione