Nel 1959 Alfred Hitchcock girò
North by Northwest (Intrigo
Internazionale). Egli credeva di girare un thriller spionistico in
cui il protagonista viene risucchiato in un intrigo internazionale a partire
da quando viene scambiato per un certo Kaplan, che è e rimarrà un nome senza
volto, corpo o consistenza.
In realtà, a finire dentro il buco nero del nome “Kaplan” fu innanzitutto
Roman Polanski, che all’epoca stava girando ancora i primi, magnifici corti,
ma da lì in poi girerà il mondo per decenni cercando di sconfiggere un
complotto ordito ai suoi danni troppo difficile da debellare. Anzi,
impossibile: ma proprio perché, questo complotto, non esiste. Cercherà,
spesso, di dare a questi tentativi anche coloriture kafkiane, surreali,
grottesche, mitteleuropee. Ma è giusto un po’ di fondotinta per coprire una
realtà troppo traumatica perché possa essere affrontata, e che consiste
nella seguente certezza: Kaplan non si batte.
Così, dal 1959 in poi seguì tutta una sfilza di personaggi innocenti tirati
dentro qualcosa di più grosso, minaccioso e a loro estraneo. Stavolta, è la
volta di un ghost writer, uno scrittore assunto per risistemare
l’autobiografia del premier inglese Adam Lang (in teoria Pierce Brosnan, in
pratica Tony Blair), proprio mentre scoppia un caso-Iraq che lo vede
coinvolto. Il ghost non potrà fare a meno di indagare attorno a lui,
scoprendo cose anche molto peggiori dello scandalo iracheno.
Sui titoli, un omicidio. La vittima è il ghost writer precedentemente
assoldato dal premier. Da subito, il nostro ghost prende il posto di Kaplan:
il posto del morto. Ben presto, una volta avuto l’incarico, raggiunge il
premier in una ventosa isola su cui si staglia l’enorme villa modernista di
Lang. A questo punto, non si può non pensare a
Intrigo Internazionale, che finiva su una villa molto, molto simile.
È il posto del morto perché lui sta in un punto, e tutt’intorno, fuori, ci
sono dei segni che si agitano, si combinano, e di fatto determinano la sua
vita e la sua morte. Lui tenta di raccapezzarcisi, e invece i segni
dispongono di lui. Letteralmente, tutto è già scritto, lui non deve fare
altro che star fermo, impotente, e farsi guidare da loro, come su .
Per questo, la scena chiave del film è quella del navigatore satellitare. A
intervalli regolari, la trama letteralmente non sa più da che parte girarsi,
e allora arriva qualcosa a farla ripartire, spesso in uno spregio tutto
hitchcockiano delle verosimiglianze: il ghost che riferisce a un ministro
che uno dei più intimi amici di Lang è un potentissimo agente della CIA, e
il ministro che si stupisce enormemente: ma la soffiata è stata trovata con
una ricerca di 5 minuti su google! Spesso, dunque, avviene qualcosa da fuori
che sblocca un punto morto. In uno di questi casi, il protagonista sale sul
fuoristrada che fu, ovviamente, dell’ex ghost writer morto. Vuole farsi un
giro, ma non ci riesce. No, perché il navigatore decide per lui. Ed è così
che il film prosegue: la macchina lo porta proprio dall’uomo-chiave
dell’indagine scottante che il predecessore provò a compiere, e che lui
prova a continuare. Possibilmente senza morire a propria volta.
Il punto però non è morire. Il punto è morire in campo o morire fuori campo.
È lì che il film va a parare (e non è uno spoiler). Una volta che si è
capito che vincono sempre loro, i segni, l’unica cosa che rimane fare è
scegliere in che modo venire beffati. La beffa, è da sempre la cifra
principale del cinema polanskiano. In apparenza, la sua regia ci restituisce
nella maniera più lucida il nodo trasparente che lega il punto di vista di
chi guarda (che spesso galleggia goffamente in primi piani troppo
ravvicinati e tendenti a isolarlo) e ciò che esso guarda (spesso una
porzione di spazio volutamente disarticolata, sospettosamente amorfa, o che
magari annega nel vuoto il centro dell’azione visto da troppo lontano). Ma
poi, questa trasparenza è continuamente beffata da traiettorie eccentriche;
in questo film: una miriade di sguardi e occhiate di intesa tra personaggi
che “sporcano” le inquadrature al loro interno – ma soprattutto, personaggi
che stanno guardando la scena non visti e che diventano visibili solo grazie
a un brusco stacco di inquadratura, a scena ormai avanzata. Questo perché il
posto che si occupa, da cui si guarda il mondo e da cui si prova a
ricostruirlo, è sempre quello sbagliato.
Per questo, Polanski stesso è probabilmente l’ultimo a meravigliarsi di
essere Kaplan anche nella vita, di ricoprire giocoforza un ruolo in cui non
si ha voce in capitolo e in cui si è in balia dell’assurdo gioco acefalo dei
segni. Perché lo sa, l’ha sempre saputo: saper creare personaggi che
occupano un posto che non è quello giusto (è esattamente ciò che il nostro
ghost fa con Lang) non significa che il proprio lo sia.
18:04:2009
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