
Michael Hunter è uno psichiatra la cui vita sta andando a rotoli dopo
il suicidio del figlio: separato dalla moglie, una figlia adolescente
con cui non riesce a comunicare, incapace di esercitare la ancora professione,
tormentato dai sensi di colpa per non aver capito il figlio prima dell'irreparabile.
Su insistenza di una sua ex-allieva decide di interessarsi al caso di
Tommy Caffey, un adolescente disadattato che qualche anno prima aveva
assistito al brutale omicidio della madre da parte del padre. Tra i due
si instaura un drammatico legame che porterà alla luce una terribile realtà
sepolta nella mente del ragazzo e metterà il dottore di fronte ai
fantasmi del passato e del presente. Un analista, una tragedia familiare,
l'elaborazione del lutto, i sensi di colpa: questa volta è il cinema
americano a trascinarci, nel senso letterale della parola, dentro quella
triste "stanza del figlio", luogo della mente più che realtà fisica, sede
metaforica di tutte le parole non dette, delle spiegazioni non date, di
rapporti non risolti perché interrotti prematuramente da un destino avverso
o per incapacità proprie. E proprio questo "non detto", che costituisce
il legante sotterraneo delle varie vicende del film, è il risultato di
un meccanismo psicologico allo stesso tempo semplice e perverso
che prende il nome di rimozione e che coinvolge chiunque, a diversi livelli
di intensità: quella repressione inconsapevole di esperienze, sentimenti
o tendenze istintive che l'IO rifiuta perché fonte diretta di eccessivo
dolore e rispetto al quale, troppo spesso, ci si sente responsabili. Ma
ciò che si butta fuori dalla porta rientra dalla finestra e, latenti nei
recessi oscuri della nostra mente, questi vissuti riemergono
alla coscienza sotto forma di blocchi psicologici, sensi di colpa, disturbi
comportamentali. Il segreto per spezzare il circolo vizioso è quello di
guardare in faccia e vivere, nella sua interezza e una volta per tutte,
il dolore originario: esattamente ciò che cercherà di fare il dottor Hunter
con Tommy, mettendo in gioco se stesso molto più di quanto potesse immaginare,soprattutto
perché nel ragazzo egli rivede il figlio che non è riuscito a salvare.
Ovviamente non privo di semplificazioni narrative e contenutistiche ma
meno prevedibile e meno superficiale di tanto cinema di genere "psico-thriller",
THE UNSAID da appunto il meglio di se nei colloqui tra lo psichiatra e
il giovane - momenti di notevole tensione drammatica girati con stile
nervosissimo da una cinepresa continuamente in movimento - che rendono
decisamente ambiguo e problematico un rapporto in cui è difficile capire
chi regge realmente le fila del gioco, chi sonda l'animo di chi, chi si
stia approfittando di chi. Tom McLoughlin - ex regista di orrorazzi b-movie
come VENERDÌ 13:JASON VIVE e A VOLTE RITORNANO - dimostra sensibilità
nelle situazioni più delicate ma è conscio di avere tra le mani una storia
che non inventa niente di nuovo e quantomeno risparmia allo spettatore
certe spocchiosità stilistiche tipiche di quando il cinema indipendente
si impossessa di queste tematiche. Peccato che una volta risolto l'enigma
il film si faccia più convenzionale, compreso il vizziaccio tipico americano
di voler far confluire e sciogliere in un colpo solo tutti i nodi della
vicenda. Da segnalare la bella prova di Andy Garcia - qui anche produttore
esecutivo - perfettamente calato nei difficili panni del problematico
padre-psichiatra, e non scherza nemmeno la prova del giovane "faccia d'angelo"
Vincent Kartheiser-Tommy che caratterizza in modo perfetto il prototipo
di adolescente disturbato del nuovo millennio, non solo vittima della
colpa dei padri ma all'occorrenza anche lucido calcolatore
senza troppi scrupoli.
Voto: 25/30
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