
A quanto
pare ci voleva il talento visionario di P.T. Anderson perché la storia di
un timidone impacciato e maldestro che trova nell’amore la forza per
annientare lo sguardo irrisorio di una società di squali logorroici, potesse
sorvolare con disinvoltura il romanzo per donnette e sbaragliare con
atteggiamento di sufficienza autoriale il risucchio nel patetismo. Anderson
ammicca sornione alla favoletta rosa mantenendosene un palmo sopra, ricama
attorno ad una sceneggiatura tendente a zero [non si sa poi perché a Cannes
l’abbiano premiata, essendo la cosa più insignificante del film] un turbinio
di genialità narrative ed espedienti registici che fanno di questa
commediola spicciola un oggetto prezioso, un esempio entusiasmante di cinema
alternativo non soltanto alla tradizione del mèlo ma anche allo stile
comprovato di un autore che non teme di sporcarsi le mani con esperimenti
rischiosi. L’inquietudine apocalittica e l’eleganza scenografica di
MAGNOLIA, che avevano meritato a ragione l’acclamazione di pubblico e
critica, vengono scansati qui dalla solare levità di una storiella d’amore
a lieto fine che si consuma in scenari umani ordinari e dimessi: due
protagonisti che niente hanno di “cool”, goffi e flaccidi, bianchicci e
sudati, che grazie alla sfacciata prepotenza della passione riemergono dalla
sfiga esistenziale in cui erano invischiati e dissipano l’alienazione di un
mondo becero. Una Los Angeles priva di vorticosi bagliori al neon e
raccontata solo attraverso gli squarci banalissimi di un fatiscente
capannone, uno scaffale di supermarket pieno di budini e qualche
appartamentino di periferia; isole Hawai senza scorci paradisiaci e fauna da
spiaggia, ma stemperate nella grottesca burloneria di un corteo di deliranti
figuri in costume.Difficile farsi trasportare dall’esaltazione epica di
fronte ad una storia d’amore così minimale, ma ancora più difficile, grazie
a dio, è rintracciare la ipocrisia facilona tipica del genere davanti ad un
racconto che procede tanto gradevolmente su quella linea surreale e
corrosiva propria del cinema di Anderson e che scava un solco violento e
sanguinario nel piattume della Hollywood più mangereccia. Meteore surreali
inaspettate ed inspiegate come l’incidente iniziale, quello strano oggetto
di armonium, gli intermezzi di colori acidi sullo schermo. Programmatici
insulti all’ortodossia della ripresa fotografica nello sbilanciamento a
tratti provocatorio delle luci e nei difetti di messa a fuoco; un sonoro
psichedelico che strania e lascia interdetti. Una messa in scena
disarticolata in cui a piani-sequenza con tristi personaggi in solitudine si
succedono senza apparente criterio accelerazioni ritmiche ansiogene e folle
di buffi tipi umani che si aggrovigliano nell’inquadratura. Il tutto a
impreziosire una percezione di cinema che non si ferma ai fatti narrati,
anche laddove questi sono presi in prestito dall’archivio di stereotipi
della peggior specie, ma va oltre, nella ricerca di un protocollo
sgrammaticato e innovativo. Storia di un amore bizzarro e tenero, storia di
un autore che irride con sferzante lucidità le scialbe degenerazioni di
quella società iper-sviluppata che gli ingrassa il conto in banca.
Voto: 28/30 |