
Le due affiatate sorelle Su-mi (Im) e
Su-yeon (Moon), trascorso un periodo in una clinica psichiatrica in seguito
al suicidio della madre, ritornano a vivere con l’inetto padre (Kim) e la
nuova moglie di lui (Yeom). La convivenza si dimostra subito molto
complicata e le tensioni fra figlie e matrigna non tardano ad emergere in
modo drammatico. Inoltre Su-mi, delle due sorelle la più intraprendente e
protettiva, è afflitta da incubi e allucinazioni: scavando a fondo nella
propria mente permetterà al passato di riaffiorare, e scoprirà che niente,
intorno a lei, è come le era apparso.
Regista di culto in patria ma ancora sconosciuto da noi, il coreano Kim
riprende una tradizionale fiaba dark del proprio paese e la fonde con gli
stilemi tipici del nuovo horror orientale (ritmo lento ed ipnotico,
fanciulle pallide e striscianti, effetti sonori da infarto). Ma a differenza
di Nakata e Shimizu, maestri del brivido, Kim si dimostra regista a tutto
tondo e i suoi sono dei veri attori (molto brave le ragazze, ma la Yeom
spicca rivelando la stoffa della mattatrice), e allora tutto
quell’armamentario orrorifico divenuto già trito e inserito unicamente per
permettere a Kim di sfondare in occidente, finisce solo per appesantire
un’opera in altri momenti assolutamente convincente, che fa dei rapporti
familiari il suo fulcro e il suo motivo d’inquietudine. Le ombre che si
aggirano per casa, le figure che voltano furtivamente un angolo: la
convivenza è anche questo, e le persone più vicine possono trasformarsi in
estranei da un momento all’altro. Un’atmosfera da pentola a pressione che
ricorda gli appartamenti di Lynch (da cui Kim riprende anche l’uso del
suono); o, se si vuole, una specie di
Gente comune in versione
delirante. E dato che di delirio, di genuino delirio si tratta, al film si
perdonano alcuni squilibri piuttosto evidenti: la sovrapposizione di colpi
di scena, la mancanza di chiarezza in alcuni passaggi fondamentali della
sceneggiatura, un paio di sequenze macabre ma un pochino gratuite. Come
capita spesso nei film di questo genere, poi, il personaggio maschile di
turno è quasi nullo, ma di contro si può pacificamente affermare che poche
altre filmografie hanno dato tanta importanza alla figura femminile. Geniale
l’uso espressivo della carta da parati per sottolineare il senso di follia
latente, forse ispirato dal noto racconto del terrore
"La carta da
parati gialla" della scrittrice americana d’inizio novecento
Charlotte Perkins Gilman, in cui, fra l’altro, già si parlava di donne
striscianti.
Kim fatica ad inserirsi nelle maglie del film di genere, ma allo stesso
tempo lo eleva mettendolo a disposizione di tematiche più profonde e mezzi
espressivi più raffinati. La Dreamworks ha già acquistato i diritti per un
remake. Ma gli americani gli horror non li sanno più fare.
Voto: 26/30
10.08.2004
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