the orator

di Tusi Tamasese

con  Fa’afiaula Sagote, Tausili Pushparaj

e con Salamasna Mataria, Ioata Tanielu

  di Marco Grosoli

 

27/30

 

Tusi Tamasese si era già fatto notare per un cortometraggio premiato a Oberhausen, in cui faceva sperare, con la sua regia essenzialissima ed asciuttissima applicata al verdissimo scenario di Samoa, in una sorta di (esagerando) Idrissa Ouedraogo degli antipodi e senza i soldi francesi a “levigarlo”.

Tra i beneinformati circolava voce, a Venezia, che a Tamasese fosse stato consigliato di rodarsi con altri tre-quattro corti prima di approdare al lungo. Forse i latori di tale opinione non avevano tutti i torti. O le tulafale è solo una mezza conferma. Che comunque basta e avanza, ci mancherebbe.

L'unico, non piccolissimo, difetto del film è che ci mette troppo a ingranare. Di fatto, comincia quando è a metà. Per tutta la prima metà, si limita a poco più che impostare la situazione. Una donna altera vive con un nano dopo essere stata cacciata dal proprio villaggio a seguito della rottura del vincolo matrimoniale che aveva contratto. È fiera abbastanza da rifiutare ogni offerta di riconciliazione. E ne paga le conseguenze: la figlia subisce gravi pressioni per via della sua tresca con un uomo sposato. Ne subisce anche il nano, perché tiene incolto (per tenerci le tombe dei genitori) un terreno coltivabile che farebbe gola a molti.

A metà film, la svolta. La donna muore. E tutti i frammenti sparsi su cui si era salterellato nella prima parte (compresa una parentesi sulla squadra di rugby del villaggio che per qualche minuto fa temere - falso allarme, per fortuna – la scorciatoia del colore locale) si raggrumano in un dramma secco e tesissimo. Tutti i conflitti vengono al pettine, e vengono affrontati di petto, frontalmente: sotto la pioggia incalzante, nel suo cortile, il nano sceglierà di vendicarsi contro chi lo ha maltrattato e sta cercando di scappare, o andrà a salvare la figlia dell'ex moglie che rischia di essere sepolta dal fango?

Questa brusca virata verso l'essenziale dipende, appunto, dall'evento centrale che è la morte della moglie. La morte cambia tutto. È lei che ridetermina e giustifica le scelte “controcorrente” del nano e del suo disfunzionale entourage. La battaglia che egli ingaggia per avere a casa il cadavere dell'amata, conferma che la loro sfida all'ordine sociale è, come in una sorta di “Antigone Remix” (o Redux o Reloaded o 2.0), dettata dalla più alta fedeltà a quello che non c'è e non si vede. E sempre per questo, il nano vince sui pur ottimi argomenti di stampo pragmatico-societario dell'avversario (il fratello della donna che la rivuole, almeno morta, nel villaggio natale), battendolo appunto sul piano della parola, in una cerimoniale contesa oratoria (un autentico rito ufficiale di risoluzione orale delle dispute) da cui esce, inaspettatamente, vincitore.

La parola non si vede. E l'arte retorica di Tamasese è quella di cercare la massima chiarezza come mezzo, e non come fine. Il fine non è “dire qualcosa chiaramente”, ma affacciarsi rispettosamente, sporgendosi per un attimo e con impeccabile pudore (qualità in Tamasese già assai matura, come si discerneva anche dal cortometraggio), su ciò che non può essere detto.

 

09:09:2011