"A sangue freddo", ultimo e più celebre romanzo di Truman Capote, ha nel
bene e nel male modificato la storia della letteratura americana, così come
anche la vita dello stesso autore, il quale, provato nel profondo
dall’intera esperienza che ha portato alla nascita del libro, è riuscito in
seguito a scrivere poco altro e nulla che comunque fosse all’altezza,
scivolando negli anni in un cupo alcolismo, fino alla morte nel 1984.
TRUMAN CAPOTE – A SANGUE FREDDO di Bennet Miller non tenta di essere una
biografia completa dell’eccentrico romanziere, e tralascia gran parte della
sua vita, concentrandosi proprio sugli anni della stesura del capolavoro in
questione. Capote (Philip Seymour Hoffman), già scrittore di successo con
opere quali Colazione da Tiffany, al centro del jet-set newyorkese per le
sue doti di intrattenitore e la sua personalità esuberante, è in cerca di
una storia per l’opera che lo consacri definitivamente. Leggendo sul
giornale della strage feroce quanto apparentemente immotivata di una
famiglia nel Kansas, decide di andare ad indagare sull’avvenimento e di
cogliere le ripercussioni che esso ha avuto sulle vite degli abitanti della
cittadina dov’è avvenuto il fatto. Aiutato dall’amica ed assistente Nelle
Harper Lee (Catherine Keener), futura autrice de Il buio oltre la siepe,
riesce a conquistarsi la fiducia dello sceriffo del posto (Chris Cooper),
complice anche una moglie appassionata dei suoi libri, e successivamente
pure di Perry Smith (Clifton Collins Jr.) e Richard Hickock (Mark
Pellegrino), i due autori del massacro. In particolare, Capote instaura con
Perry un rapporto particolare, un misto di attrazione e strumentalizzazione
(i racconti del detenuto sono infatti essenziali per la stesura del
romanzo), e si ritroverà combattuto fra il desiderio di aiutare i due
condannati a morte e quello di vedere arrivare il giorno dell’esecuzione,
così da poter finalmente scrivere il finale di un libro che sta impegnando
ormai troppi anni della sua vita.
Il ritratto di questo personaggio sgradevole ma al contempo attraente,
manipolatore, geniale ed eccessivo, è incarnato alla perfezione da Philip
Seymour Hoffman, che con un’interpretazione che gli è valsa la candidatura
all’Oscar riproduce tic, nevrosi e sfumature di Capote. Hoffman, già
segnalatosi per le valide interpretazioni di ruoli però secondari in film
quali LA 25ª ORA e MAGNOLIA, ha finalmente avuto la possibilità di sfoggiare
il proprio talento, e ne ha approfittato in pieno.
La vicenda narrata è toccante, e risulta difficile trovare un giusto
equilibrio morale fra il desiderio di provare pietà per quelli che sono pur
sempre uomini, con i propri (difficili) trascorsi ed i propri affetti, ed il
disgusto che comunque permane di fronte ad un crimine che sempre più, nel
corso del film, si propone come senza senso. La stessa ambiguità la si può
provare nei confronti di Capote, che oscilla fra una profonda umanità ed una
spietatezza inaspettata (“Non mi interessi tu, mi interessa solo il tuo
racconto”, arriva dire a Perry in un momento in cui il conforto dello
scrittore è l’unica cosa rimastagli), ostaggio di un ego ipertrofico in un
corpo sgraziato.
Fra l’orizzontalità desolata del Kansas e la verticalità mondana di New
York, apparentemente inconciliabili fra loro, Miller dipinge sullo sfondo,
senza eccessi ma con metodo, l’America in anni in cui anche gli scrittori
potevano essere popstar, dando prova con questo suo secondo film di ottime
capacità compositive.
Voto: 28/30
17:02:2006 |