Non sono molti gli attori di fama passati con successo dietro la macchina da
presa: se l’esempio di Clint Eastwood è lì a dimostrare che un attore (una
maschera, nel suo caso) può trasformarsi in un regista capace di dispiegare
in maniera organica e assolutamente convincente una sua personalissima
poetica, anche il caso di George Clooney con il suo GOOD NIGHT, AND GOOD
LUCK dimostra come sia possibile – proprio evolvendosi nel passaggio da un
film all’altro – raggiungere una maturità artistica (e registica in
particolare) forse impensabile ai tempi del pur interessante CONFESSIONI DI
UNA MENTE PERICOLOSA.
A fare il grande passo è qui Tommy Lee Jones, peraltro già autore di un film
per la tv nel 1995, THE GOOD OLD BOYS. Non a caso si trattava di un western,
genere che LE TRE SEPOLTURE riecheggia in maniera insistente:
l’ambientazione nel Texas (terra natale di Jones) al confine col Messico e i
rancheros e cowboys protagonisti tratteggiano il richiamo al genere ad un
livello superficiale, mentre è il sistema di valori sotteso alle relazioni
tra i personaggi che avvicina il film in maniera sostanziale al western: la
lealtà e il coraggio dimostrati da Pete Perkins (Jones) contro la grettezza
e la pochezza morale quasi grottesche dei tutori della legge Norton e
Belmont (Barry Pepper e Dwight Yoakam); la violenza e il maschilismo, che
coesistono con forme di amore pudiche e sussurrate: si pensi al primo
incontro tra Melquiades e Lou Ann, o alla telefonata di Pete a Rachel, che
riportano alla mente i timidi approcci di Kevin Costner ad Annette Bening in
OPEN RANGE. Ma LE TRE SEPOLTURE è innanzitutto un film di luoghi: sin da
principio, la collocazione spaziale della vicenda in una terra di confine
sembra accennare in qualche modo alla natura ibrida di questo film, alla sua
appartenenza a più territori; non a caso Pete e Mike si muovono nello
spazio, attraversando due mondi diversi tra loro alla ricerca del luogo in
cui seppellire Melquiades. Questo movimento nello spazio è all’origine della
contaminazione di generi che caratterizza il film, cioè quella tra western e
road movie. Un accostamento non certo nuovo, ma proprio per questo ben
rodato: il road movie si fa percorso di espiazione, e insieme progressivo
processo di convergenza tra il “sentire” dei due protagonisti.
Fin qui, con queste caratteristiche il film ha la stessa faccia e la stessa
personalità del suo regista: solido, quadrato, pragmatico e senza fronzoli
come lo U.S. marshal Samuel Gerard de IL FUGGITIVO. Ma poi, chissà perché,
questo bel connubio di genere, questa bella riflessione sui non-luoghi di
confine e sulle persone smarrite che li abitano, si disperde, si diluisce in
qualcos’altro. E ci si domanda quale sia la necessità della frammentazione
temporale che ammorba il film per tutta la prima parte (e oltre). La
risposta probabilmente sta nel nome dello sceneggiatore, quel Guillermo
Arriaga che già aveva scritto 21 GRAMMI, facendo perdere di vista a Gonzalez
Inarritu - già abbastanza distratto di suo dalla ricerca di un’estetica
“sporca” – il fatto che stesse girando un melodramma (cosa che invece Penn,
Del Toro e la Watts sembravano gli unici ad aver capito). La linearità
temporale, io credo, lì come qui, avrebbe valorizzato molto di più un
soggetto che, francamente, di continui salti avanti e indietro nel tempo non
sentiva l’impellente necessità. Forse dopo PULP FICTION di questa cosa
proprio non si può fare a meno, pena il rischio di sembrare troppo poco
postmoderni.
Voto: 24/30
28:01:2006 |