VENEZIA.66

 

tra due mondi

di Vimukhti Jayasundara
Sri Lanka, 80'

 

In Concorso

 

29/30

Tra due mondi, opera seconda Vimukhti Jayasundara, di rivela un autore di già impressionante maturità. Il precedente Forsaken Land, che vinse la Camera d’Or a Cannes (Migliore opera prima) faceva vibrare qua e là di sospensioni visionarie una storia pressoché interamente rivolta al bellicoso presente dello Sri Lanka. Qui Jayasundara si spinge molto oltre: il modo in cui riesce a sospendere davvero tutto “tra due mondi” (realismo e visionarietà, riferimenti alla guerra e magia immaginifica, presente e passato, cronaca e leggenda, città e campagna) è sorprendentemente inedito, nuovo.
Il protagonista abbandona una strana rivolta urbana dove le televisioni vengono buttate per strada e i ripetitori bruciati (per non dire di un tizio con una maschera da Mickey Mouse brutalmente pestato). Torna in un villaggio di provincia, dove la sua storia si mescola nel meno banale dei modi a una antica leggenda che lo vuole risparmiato da un massacro di virgulti ordinato dall’alto grazie all’essersi nascosto nell’interno di un albero.
“Nel meno banale dei modi” vuol dire che questa “incarnazione” avviene quando ormai ce la siamo dimenticata, sull’onda di un fitto sistema di simmetrie binarie per cui tutto torna due volte, ma nulla è là dove ce lo saremmo aspettato. Jayasundara azzecca una stranissima, affascinante alchimia per cui, come dice il barcaiolo del film, possiamo vedere oggi una cosa che in realtà è successa ieri. In altre parole, con la densità pittorica di inquadrature sempre ricolme di colori non particolarmente sgargianti ma sempre molto saturi, anzi si direbbe proprio “sazi”, con il lento incedere dei suoi movimenti di macchina, con lo ieratismo delle azioni e con la tendenza a fare del quadro un recinto da cui, che la cinepresa si muova o no, non si può uscire, Jayasundara dà l’impressione di congelare il tempo. Non esattamente: non si tratta tanto di congelare il tempo, quanto di lasciar percepire in tutta questa fissità come una brezza che gli soffia sopra. Questa è la prima impressione: poi, più ci addentriamo nell’ipnosi, più ci rendiamo conto che è come se dall’immagine congelata si liberasse l’immagine stessa in un diverso “stato”, diciamo gassoso, ed è come se questa immagine uguale e diversa da quella da cui proviene si librasse sopra di lei, svolazzasse a mezz’aria. In questo modo, Jayasundara trasmette ai nostri occhi la sensazione di un’immagine una e doppia allo stesso tempo.
Insomma: Jayasundara ci tiene continuamente a mezz’aria, e tutt’a un tratto, ecco una simmetria inattesa, un elemento che ritorna, un déjà-vu, a ricordarci che l’immagine è, appunto, una e doppia. Nulla di meno schematico di questo continuo e inatteso specchiarsi, nulla di più lontano da un piatto giochino di “doppi”.
Per questo il film comincia col tuffo del protagonista colto (di nuovo) a mezz’aria tra cielo e mare, e solo un paio di inquadrature dopo lo vediamo risalire la roccia da cui si è (sarà) tuffato. L’immagine è una e doppia perché il presente viene prima del passato. Solo ripetendosi il presente sfugge al limbo della sospensione continua e diventa presente.
 

12:09:2009

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Venezia, 02/12 settembre 2009