Tra due mondi,
opera seconda
Vimukhti Jayasundara, di
rivela un autore di già impressionante maturità. Il precedente
Forsaken Land, che vinse la
Camera d’Or a Cannes (Migliore opera prima) faceva vibrare qua e là
di sospensioni visionarie una storia pressoché interamente rivolta al
bellicoso presente dello Sri Lanka. Qui Jayasundara si spinge molto oltre:
il modo in cui riesce a sospendere davvero tutto “tra due mondi” (realismo e
visionarietà, riferimenti alla guerra e magia immaginifica, presente e
passato, cronaca e leggenda, città e campagna) è sorprendentemente inedito,
nuovo.
Il protagonista abbandona una strana rivolta urbana dove le televisioni
vengono buttate per strada e i ripetitori bruciati (per non dire di un tizio
con una maschera da Mickey Mouse brutalmente pestato). Torna in un villaggio
di provincia, dove la sua storia si mescola nel meno banale dei modi a una
antica leggenda che lo vuole risparmiato da un massacro di virgulti ordinato
dall’alto grazie all’essersi nascosto nell’interno di un albero.
“Nel meno banale dei modi” vuol dire che questa “incarnazione” avviene
quando ormai ce la siamo dimenticata, sull’onda di un fitto sistema di
simmetrie binarie per cui tutto torna due volte, ma nulla è là dove ce lo
saremmo aspettato. Jayasundara azzecca una stranissima, affascinante
alchimia per cui, come dice il barcaiolo del film, possiamo vedere oggi una
cosa che in realtà è successa ieri. In altre parole, con la densità
pittorica di inquadrature sempre ricolme di colori non particolarmente
sgargianti ma sempre molto saturi, anzi si direbbe proprio “sazi”, con il
lento incedere dei suoi movimenti di macchina, con lo ieratismo delle azioni
e con la tendenza a fare del quadro un recinto da cui, che la cinepresa si
muova o no, non si può uscire, Jayasundara dà l’impressione di congelare il
tempo. Non esattamente: non si tratta tanto di congelare il tempo, quanto di
lasciar percepire in tutta questa fissità come una brezza che gli soffia
sopra. Questa è la prima impressione: poi, più ci addentriamo nell’ipnosi,
più ci rendiamo conto che è come se dall’immagine congelata si liberasse
l’immagine stessa in un diverso “stato”, diciamo gassoso, ed è come se
questa immagine uguale e diversa da quella da cui proviene si librasse sopra
di lei, svolazzasse a mezz’aria. In questo modo, Jayasundara trasmette ai
nostri occhi la sensazione di un’immagine una e doppia allo stesso tempo.
Insomma: Jayasundara ci tiene continuamente a mezz’aria, e tutt’a un tratto,
ecco una simmetria inattesa, un elemento che ritorna, un déjà-vu, a
ricordarci che l’immagine è, appunto, una e doppia. Nulla di meno schematico
di questo continuo e inatteso specchiarsi, nulla di più lontano da un piatto
giochino di “doppi”.
Per questo il film comincia col tuffo del protagonista colto (di nuovo) a
mezz’aria tra cielo e mare, e solo un paio di inquadrature dopo lo vediamo
risalire la roccia da cui si è (sarà) tuffato. L’immagine è una e doppia
perché il presente viene prima del passato. Solo ripetendosi il presente
sfugge al limbo della sospensione continua e diventa presente.
12:09:2009
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