E'
la vera storia del capitano Ernest Gordon, un giovane soldato scozzese
catturato insieme al suo reggimento dai giapponesi stanziatisi in Thailandia
durante la seconda guerra mondiale. I prigioneri verranno costretti, a
dispetto della convenzione di Ginevra, a costruire più di trecento chilometri
di binari utili ai nipponici per invadere la Birmania. Il maggiore Ian
Campbell progetta la fuga, ma verrà brutalmente ucciso, mentre il tenente
Tom Rigden, egoista e solitario, si convertirà ai valori di dignità e
sacrificio mostrati invece da Gordon e Dasty Miller.
"La pellicola", ha detto in conferenza stampa il regista, "vuole essere
un film sulla spiritualità, non sulla religione. Manca infatti la preghiera".
I prigioneri sono spinti dall'idea di una morte incombente e in agguato
a stringersi in una microcomunità che studia Platone e le sue idee di
giustizia, che applica il significato del perdono e la rimozione del desiderio
di vendetta, che cerca continuamente il rapporto e lo scambio col proprio
carnefice. Le condizioni igieniche e di salute degenerano lentamente fino
a una totale confusione di corpi. Le scene cruenti servono proprio a confondere
i corpi in unica umanità sollevata da una condizione spirituale nuova
che supera ed esorcizza la morte, la guerra, la violenza.
A mio avviso la vera pecca del film è l'utilizzo eccessivo di una voce
fuori campo, la voce narrante del capitano E. Gordon, che oltre a raccontare
tutto, spiega pure tutto, la conversione, la trasformazione intima dei
prigionieri, moncando così le immagini di un possibile potere suggestivo
ed interpretativo. Lo spettatore, insomma, partecipa poco alla storia,
non ha nulla da comprendere perché è già tutto spiegato, e riduce il suo
ruolo a quello di ascoltatore passivo che subisce i fotogrammi proiettati
sullo schermo.
Un'altra notazione: la camera a spalla segue continuamente i movimenti
degli attori probabilmente per rendere l'idea della confusione e dell'agitazione
all'interno del campo.
Mark Strong (Dasty), ha detto in conferenza stampa "Alla fine delle riprese
eravamo tutti così amici che ci siamo tatuati chi simboli occidentali
chi simboli orientali".
"Era davvero questo lo scopo del film", ha concluso il regista, soddisfatto
del suo lavoro e dell'enorme disponibilità dimostrata dagli attori sul
set.
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