
LA TIGRE E IL DRAGONE ha avuto, in USA, un successo enorme (vedi anche
gli Oscar), così come presso tutte le platee occidentali. Un caso,
all'apparenza, piuttosto singolare, dal momento che il film è recitato
in lingua mandarina e da attori non americani. Ma è davvero giustificato,
come si è fatto, parlare di trionfo imprevisto?
Il film di Ang Lee giunge in un momento del cinema americano che l'urgenza
di nuove strade ha esposto, quanto mai in passato, alle influenze esterne:
le più forti, di recente, sono arrivate dall'estremo oriente. Ciò,
negli episodi più clamorosi, ha prodotto addirittura l'assorbimento
nel sistema dei cineasti più rappresentativi di quella scuola:
è ovviamente il caso di John Woo, ma non solo. In realtà,
comunque, ad osservare le produzione degli ultimi anni, non è difficile
cogliere in che modo e in quante forme la Nuovelle Vague del Far East
sia penetrata nell'industria dell'enterteinment hollywoodiano. Basterebbe,
per citare la più eclatante delle evidenze, pensare al Kung Fu
- o più in generale alle arti marziali - ed alla loro rinnovata
popolarità: the matrix, lo stesso MISSION: IMPOSSIBILE 2, STAR
WARS: EPISODE I, ARMA LETALE 4, CHARLIE'S ANGELS ne hanno fatto ricorso,
e non sempre a proposito [1]. LA TIGRE E IL DRAGONE è giunto dunque
quando il pubblico occidentale era, per tutti questo motivi, ormai pronto
ad accoglierlo.
Seconda considerazione: Ang Lee è indubbiamente il più americano
tra i cineasti cinesi, tanto che già i suoi esordi - IL BANCHETTO
DI NOZZE (1993) e MANGIARE BERE UOMO DONNA (1995) - erano, tra le altre
cose, anche un omaggio alla commedia classica made in USA. Ma non basta,
perché con i film successivi (tranne RAGIONE E SENTIMENTO) Lee
ha tentato di penetrare due momenti chiave della storia cinematografica
(e non solo) degli Stati Uniti: gli anni Settanta (TEMPESTA DI GHIACCIO)
e il western (CAVALCANDO COL DIAVOLO). Ora, a prescindere dai risultati
effettivi - certamente superiori nel primo caso - ciò che conta
è come, in meno di un decennio, Lee sia riuscito a rendere palesi
le proprie affinità con Hollywood e con il sistema che lì
regge l'industria dello spettacolo (lo dimostra il gran numero di candidature
agli Oscar ottenuto dai suoi film: cosa impossibile nel caso di un outsider).
Nulla a che vedere, dunque, con Zhang Yimou o Zhang Yuan. Era lui, di
conseguenza, il più idoneo a realizzare un prodotto che fosse sintesi
di tutto quel complesso di influenze cui accennavamo, ed era anche l'unico
cui affidare il passo successivo: l'importazione non più di alcuni
elementi ma di un intero immaginario cinematografico, quello legato al
più forte dei generi del film cinese, il wuxiapian.
Nato sugli schermi attorno alla fine degli anni Sessanta con i film di
King Hu (in Italia il più noto è A TOUCH OF ZEN del 1969),
questo filone - detto in estrema sintesi - deve la propria esplosione
soprattutto al lavoro di Tsui Hark, regista e produttore, cui va associato
il successo del genere e la forza di penetrazione che ha saputo raggiungere
anche in America: è lui che ha prodotto film come STORIA DI FANTASMI
CINESI (1987) di Ching Siu-Tung, il fondamentale John Woo di THE KILLER
(1991) o l'infinita sfilza di ONCE UPON A TIME IN CHINA (1991/97). Pur
nelle infinite variazioni sul tema, le saghe wuxiapian rispettano sempre
almeno due elementi della loro tradizione: la presenza dei cosiddetti
"cavalieri erranti", eroi senza paura e modello di moralità,
e - da un punto di vista più strettamente tecnico - una grande
attenzione dedicata alle coreografie nei duelli corpo a corpo. È
soprattutto a quest'ultimo elemento che ha guardato Ang Lee per CROUCHING
TIGER, HIDDEN DRAGON, ovvero la caratteristica di maggiore impatto spettacolare:
la più facile da esportare e vendere [2]. E poi, per interpretare
i due eroi, il regista ha chiamato gli attori hongkonghesi più
noti in America: Chow Yun-fat (ANNA AND THE KING con Jodie Foster) e Michelle
Yeoh (007. IL DOMANI NON MUORE MAI). A questo punto appare chiaro come
l'operazione La tigre e il dragone sia nata su basi piuttosto sicure,
e a partire da elementi in grado di scuotere l'immaginazione dell'assuefatto
pubblico occidentale con il loro (apparente) esotismo. Ma è soprattutto
in ragione di un elevato quoziente di meraviglia - cui l'ambientazione
nel contesto d'origine conferisce la "plausibilità" necessaria
- che è giusto parlare di impresa riuscita.
Ecco allora un terzo punto: cos'è che differenzia la spettacolarità
wuxiapian da quella del prodotto medio americano, universalmente noto
come il più straordinario? Cosa può portare di nuovo? Se
chiunque è disposto a dare per scontato il coefficiente di finzione
connaturato ad ogni messa in scena filmica, questo non significa per forza
libertà assoluta. Ai cineasti occidentali, infatti, non è
permesso forzare troppo le categorie spazio-temporali o le leggi della
fisica, se non a patto di compromettere le aspettative del pubblico medio,
per il quale una qualche forma di verosimiglianza rimane ancora fondamentale.
In altri termini: ci capiterà sempre di vedere 007 saltare in volo
da un aereo all'atro, ma non lo vedremo mai camminare sui muri o volare
con la sola forza delle gambe. Tentare la strada del fantastico non significa
perciò ignorare la necessità di alcuni giochi d'equilibrio,
come quello tra trama e contesto: per rendere "credibile", ad
esempio, un film come MATRIX è d'obbligo ipotizzare e mettere in
chiaro un futuro assai remoto, necessariamente legato ad uno sconvolgimento
totale del rapporto uomo/macchina.
Qualcosa di leggermente diverso avviene col film di Lee: è ambientato
nella Cina della dinastia Ching, e questo - per quanto dicevamo sopra
- basta a renderlo sufficientemente esotico, "fantastico". Non
basterebbe, tuttavia, a "legittimare" (sempre nel senso inteso
prima) tutto quello di cui i suoi protagonisti, nella totale indifferenza
per la legge di gravità, sono capaci: meraviglie cui il racconto
non fornisce valide giustificazioni, nemmeno attraverso un logico stupore
dei personaggi secondari. Perché la forza di CROUCHING TIGER, HIDDEN
DRAGON è proprio nell'aver fatto riemergere - ereditando le formule
di un genere antico, ma adatto ai tempi - la primordiale capacità
del cinema di stregare e coinvolgere in quanto territorio dell'impossibile.
L'importanza enorme che il dialogo riveste in molto cinema contemporaneo
ha decentrato l'attenzione del pubblico rispetto al nucleo stesso della
comunicazione cinematografica, ovvero l'immagine in movimento. Ma qui,
come accadeva nel muto o nel musical, tornano essenziali il puro elemento
cinetico e l'eloquenza dell'immagine in quanto tale: la parola non aggiunge
nulla. Gran parte del film è occupata da sequenze di duello, dove
a prendere possesso della scena sono anzitutto l'eccezionale modo con
cui gli attori riempiono lo spazio, la velocità del colpo su colpo,
e l'inedito espandersi degli scontri in altezza e superficie. Questo permette
al film di svilupparsi anche lungo un'inedita direttrice verticale. I
duellanti - in scene realizzate con un sistema di cavi e tiranti, detto
appunto wire work - percorrono indifferentemente muri e pavimento, tetti,
rami di bambù, specchi d'acqua. Come in certi videogiochi, lo scenario
cambia di continuo e, per spostarsi, non servono piani o solidi: ogni
dimensione dell'ambiente circostante - naturale o architettonico che sia
- può trasformarsi in un campo di battaglia. A guadagnarne è
soprattutto lo spettacolo.
Gran parte del fascino che il film porta con sé si deve poi alla
leggerezza ed alla "normalità" con cui tutto sembra avvenire:
i nemici si scontrano, prendono il volo, e non esiste l'umiliazione dell'avversario.
Ogni duello è fondamentalmente una profonda forma di conoscenza
reciproca, un mettersi a nudo, al di là di ogni protezione, men
che meno quella della parola: è un rito doveroso da affrontare,
in primo luogo per incontrare se stessi. Lo scopo di questi guerrieri
è il raggiungimento della pace interiore: una condizione possibile
anche nell'abbandono ad un amore appagante. E, in un certo senso, LA TIGRE
E IL DRAGONE è anche un film sull'amore. Shu Lien (Michelle Yeoh)
e Jen (Zhang Ziyi) sono, assieme a Li Mu-bai (Chow Yun-fat), le protagoniste
assolute della pellicola e dunque di gran parte delle scene d'azione.
Entrambe possiedono qualcosa che manca all'altra: Shu Lien ha combattuto
tutta la vita, è stata eroica e libera, ma ha dovuto rinunciare
a Lien Mu-bai; la giovane Jen sa cos'è l'amore, eppure non è
libera di viverlo: è per questo che vorrebbe diventare una guerriera.
Ma a tutte e due è stata negata la possibilità di un amore
felice e, in fondo, è proprio per questo che combattono: il recupero
del Destino Verde, la spada leggendaria, è un puro espediente narrativo,
perché ciò che muove i tre protagonisti è la ricerca
della felicità individuale. Si tratta di tematiche che ben si adattano
all'essenza di alcune dottrine cinesi - il Taoismo in particolare - che
tanto affascinano l'Occidente: la conciliazione degli opposti, l'eliminazione
delle tensioni, la ricerca dell'armonia. Tutte cose che sembrano mancare
da noi, nel nostro mondo dove spesso - come peraltro già ben descritto
da Lee in TEMPESTA DI GHIACCIO (1997) - l'accumularsi di tensioni sempre
più intense ed irrisolvibili ha come sbocco ultimo la tragedia.
Ed ecco un altro dei possibili motivi del successo del film.
Voto: 26/30
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