this must be the place
di Paolo Sorrentino
con Sean Penn, Frances McDormand
e con David Byrne, Eve Hewson

di Marco Grosoli

 

27/30

 

Non sarebbe sbagliato considerare This must be the place quello che sembra: ovvero il “grimaldello” che ha permesso a Sorrentino di imporsi definitivamente sulla scena mondiale – con capitali internazionali e attori del calibro di Sean Penn, Francis McDormand e Harry Dean Stanton. Tuttavia, la chiave migliore per inquadrare un'opera come questa è un'altra: Sorrentino è ora un archistar. Il capitale multinazionale (ricordiamolo: questo film segna l'inedito impegno diretto e senza ulteriori mediazioni nella produzione, da parte di Banca Intesa San Paolo), ben sapendo che lo spreco è una forma di investimento da cui non ci si può sottrarre, affida milioni e milioni di euro a un autore (meglio: a un marchio autoriale) che sappia confezionare a dovere (e confermare) il messaggio alla base della civiltà globale e post-capitalista contemporanea: il mondo intero è diventato un campo di concentramento, è diventato nuda vita da sottomettere a forme organizzative sempre meno legittime e sempre più scollate da quello che dovrebbero rappresentare e organizzare. Lo spazio è fatalmente separato da chi lo utilizza, e non può dunque non essere affidato a chi “sa il fatto suo”: la star. Da cui, la conferma puntuale dello status quo.

L'arte contemporanea lo sa da decenni, e prova a regolarsi di conseguenza. Sorrentino prova ancora a dare a tutto ciò la forma del cinema, ovvero del mito. Mito significa regolazione della (propria) storia rispetto a un'origine. E questa origine sono i campi di concentramento: per poterli superare e andare oltre, bisogna tornare a loro.

Bisogna, come fa l'attempata rockstar dark anni Ottanta Cheyenne, vendicarsi di chi rinchiuse nei campi i nostri padri impedendoci di crescere, e girare mezza America per riuscire a rinchiudere (nudi e tremanti) i responsabili nel campo di concentramento a cielo aperto che è nel frattempo diventato il mondo. Perché gli States, che siano Michigan o Utah o altro, sono di fatto indistinguibili dalla provincia di Latina (cfr. l'incompreso Sorrentino de L'amico di famiglia, 2006): ovunque  lo stesso non-luogo, la stessa sovrapposizione (non troppo dissimile dal campo) di determinazione e indeterminazione.

Ovunque lo stesso affiancamento informe di casette suburbane a perdita d'occhio e mostruosità architettoniche. Ovunque, la stessa invasione di oggetti risibilmente inadeguati o demodé, che espongono svergognatamente la differenza tra loro stessi e il posto che sono supposti occupare (il piedistallo cui li consegna sarcasticamente la macchina da presa di Sorrentino). Cheyenne alla moglie: “Perché il tuo architetto ha fatto scrivere un'enorme scritta 'Cucina' in cucina? Io lo so che quella è la cucina”. Siamo dunque dalle parti del pop, con la differenza che, essendo il pop diventato “il mondo”, le icone pop perdono la loro bidimensionalità, e assumono una loro volumetria, come qui il gigantesco e ingombrante “pistacchio più grande del mondo” che si erge monumentale nel bel mezzo del Midwest americano.

La regia di Sorrentino è tutta qui: un gioco di distanze e volumetrie nel bel mezzo di un florilegio di opere d'arte istantanee che, oggi, si chiama “mondo”. Oppure, se si vuole, una maniera fantasiosamente geometrica di misurare lo spazio tra un puntino e l'altro di un qualche Liechtenstein. Se si vuole, è anche un po' il gioco di David Byrne, che qui compare in veste di Artista a capo di una gigantesca installazione in cui cerca letteralmente il dominio assoluto sullo spazio; appena prima, lo abbiamo visto su un palco sotto a un pezzo di mondo letteralmente prelevato a mo' di “objet trouvé” (un giardino con sedie a sdraio e una donna che prende il sole) e schiaffato su una placca che va avanti e indietro nella parte alta del palco, sulle teste dei musicisti. Come a dire: io, artista, sono la star che si fregia dei pezzi di mondo in tre dimensioni fatti istantaneamente arte.

Sorrentino, però, prova ad andare oltre; prova a stare dalla parte di Cheyenne che rimprovera all'amico Byrne che no, lui di giocare a fare l'artista non se la sente più. Cheyenne è la spia che c'è dell'altro al di là dell'artista, dell'adeguarsi al gioco del mondo-fatto-arte. Pesantemente truccato (come molti eroi sorrentiniani), la sua stessa maschera testimonia che l'ossessione per il travestimento deriva dalla paura della Nuda Vita, dal terrore che sotto il trucco ci sia il nulla, quello stesso nulla che il mondo esibisce sciorinando la propria lampante inadeguatezza.

La meta, allora, sarà togliersi la maschera. Il finale ne è un esempio palese. Non avere più paura dell'apparenza, ma riuscire a vedere essa stessa come l'agognato superamento della discrepanza (eminentemente estetica, e che oggi invade il mondo) tra l'oggetto e il posto che occupa. Questo DEVE essere il posto: la distanza tra il posto e ciò che lo occupa non viene più esposta, ma finalmente vissuta, e fatta pelle.

Un punto d'arrivo importante, cui forse Sorrentino arriva con troppa programmaticità. Prende troppa rincorsa per superare dall'interno l'ideologia da “archistar”, fa troppo affidamento sul mito per liberarsi del mito, sicché non si è davvero sicuri che alla fine se ne sia liberato davvero. Nella sua visione, i campi di concentramento forse rimangono troppo all'origine del mondo contemporaneo per arrivare davvero al di là di loro. Finisce, in altre parole, per ribadirne la centralità.

Ma non possiamo imputargli di non aver fatto un miracolo. I miracoli accadono e basta, e possono chiamarsi, per esempio, Malick. Sorrentino rimane al di qua del miracolo, ma il quadro storico che dà della contemporaneità e delle condizioni che ne sono alla base è di straordinaria appropriatezza.

 

21:05:2011

prima pubblicazione festival di cannes 2011

this must be the place

Regia Paolo Sorrentino

Italia/Francia/Irlanda 2011, 120'
Medusa

DUI: 14/10/2011

Drammatico