the exchange

di Eran Kolirin

con Rotem Keinan, Sharon Tal

e con Dov Navon, Shirili Deshe

 

 

30/30

 

La fusione ossimorica degli attributi sensoriali, in un regime fenomenico, quello contemporaneo, votato all'immersività e all'ipertestualità, attesta oggi, sempre di più, la perdita della posizione egemonica dello sguardo.

La virtualità e i suoi corollari hanno (quasi) definitivamente trasceso la sovranità della vista, pilastro invece dell'era moderna, relegandola ad un ruolo secondario.

Il visibile cede al tattile e lo sguardo s'intorpidisce, agonizza.

Eran Kolirin, giovane regista israeliano, con il suo Hahithalfut (The Exchange), esorcizza questa morte, costruendo con poetica ironia un film che recupera e ri-scopre lo sguardo, attraverso la reinvenzione dello spazio e la ricerca dell'essenza residuale delle cose.

L'antieroico protagonista Oded, interpretato da uno straordinario Rotem Keinan, consuma le sue giornate a ritmo di una monotona e vacua routine. Ma un 'occasione fortuita, apparentemente irrisoria, sconvolgerà la sua esistenza: rientrerà a casa in un orario insolito per recuperare la carpetta arancione che avrebbe dovuto portare con sé al lavoro.

L'interruzione coatta delle cadenze abitudinarie e degli sguardi distratti, fino ad allora mai messi a fuoco, causerà un cortocircuito  fruitivo e da quel momento il suo sguardo, nuovo e meravigliato, indagherà e si poserà su ogni piccolo particolare della sua vita, che vedrà in una prospettiva nuova. Il lavoro e l'ufficio, la fidanzata (la bella e brava Sharon Tal) e la casa, l'appartamento, l'ascensore, un cespuglio, i pavimenti, tutto sarà visto e percepito come nuovo, particolare, eccitante perchè improvvisamente sconosciuto.

Oded osserva, ispeziona, s'interroga stupito. Guarda e si guarda, estraneo, in un mondo inaspettatamente altro, quasi animato da un motivo perturbante.

Il corpo, non solo linguaggio e cultura, torna ad essere natura. Emblematica è, in questo senso, la sequenza dello specchio nella quale Oded, denudandosi simpaticamente, ri-trova il suo corpo nel riflesso, ri-conoscendosi, come direbbe Lacan, per la prima volta.

Rimandi continui della visione quindi, osservare e essere osservati, come suggerisce l'inquilino del protagonista, suo compagno di folli “performance”, il formidabile Dov Navon.

Esserci ed essere, soprattutto, tra le cose, secondo echi di heideggeriana memoria.

L'originalissimo film di Kolirin oggettivizza il vedere, recupera quasi letteralmente il rapporto con le cose. Gli oggetti, nei confronti dei quali vige una sorta di latente e innocuo feticismo, sembrano diventare protesi dello sguardo stesso, la visione un espletamento tattile.

L'ipertrofia dello sguardo si allarga fino ai confini del voyeurismo, sempre con eleganza, sempre con candida ironia, divenendo esercizio di pulsioni scopiche.

Nostalgia della vista e nostalgia delle cose, della concretezza del fenomeno, che diventa finalmente epifania. E nostalgia di un cinema che non c'è più, il cinema degli oggetti, del profilmico, un cinema di sguardi, emblema della visione.

La forza di Hahithalfut, tanto profondo nell'estetica, quando leggero e piacevole nella messa in forma, nonostante delle piccolissime e perdonabili ingenuità, convince a tal punto da rendere il giovane Kolirin, qui al suo secondo lungometraggio, l'indiscussa sorpresa del Festival.

 

09:09:2011