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VENEZIA.66
the road di John Hillcoat Stati Uniti 2009, 112'
In Concorso
26/30 |
L’immagine sporca, graffiata, ferita di The Road, pellicola firmata da John Hillcoat in concorso a Venezia (efficace trasposizione dell’omonimo romanzo dello statunitense Cormac McCarthy), il suo aspetto tragicamente scarno, la sua suggestiva e incomodante monocromia danno forma e modellano insieme, lo scenario post-apocalittico entro il quale sono costrette le esistenze di un uomo e del suo bambino, protagonisti senza nome di un viaggio indeterminato e indeterminabile incontro a un’umanità superstite, brutalmente votata all’autodistruzione. Vittime di una spaventosa catastrofe non specificata l’Uomo, interpretato da un impeccabile e intenso Viggo Mortensen e il figlio, il giovanissimo Kodi Smit-McPhee, lasciati dalla disperata madre-moglie Charlize Theron che preferisce suicidarsi nelle tenebre, percorrono la strada vuota, cruda, senza più contorni, muovendosi verso Sud col solo scopo di sopravvivere. I due, uniti da un amore incondizionato, puro, senza riserve sono spinti dall’istinto di conservazione più che dalla volontà di resistere. Tanti sono i momenti in cui “il loro fuoco interiore” (dignitosa traccia di umanità), che dichiarano più volte di preservare, rischia di spegnersi ed essere estinto: la pistola con i due colpi residui appare spesso come la loro unica possibile via di uscita dal vuoto che li circorda. è tragica la scena in cui il padre insegna al figlio come utilizzarla per suicidarsi, scampando all’essere umano ormai inesorabilmente zombie, homini lupus, in un mondo che non conserva più nulla di umano. La perdita di ogni riferimento, di ogni certezza, della quotidianità conduce l’individuo ad errare per sopravvivere a se stesso, a farsi animale per non essere sbranato. La strada, senza origine né metà, dai contorni sempre uguali ma sempre costantemente diversi, è il luogo simbolico del disorientamento topologico, ma anche temporale ed esistenziale dell’individuo postmoderno. La surmodernità, come la definirebbe Augè, è un tratto latente soffusamente rintracciabile alla base del testo letterario, prima ancora che nel film. Eccesso di tempo, eccesso di spazio, eccesso di ego che esplodono e si frantumano nel deserto visivo di Hillcoat, facendo venir meno una qualsiasi possibilità di “distanza” anche se, paradossalmente, il film vive di distanze. L’informazione è elusa, come accade nei processi conoscitivi postmoderni; allo spettatore non è dato sapere l’antefatto. Conoscere la causa non serve, l’inesorabilità del destino degli esseri prescinde dalla possibilità di apprenderne i contorni. Anche la dimensione etica viene compromessa: non esiste più né il bene né il male. Il bambino però, con la sua presenza, la sua figura, la sua bianca ingenuità, fa la differenza. è una figura messianica, angelica, conserva e rappresenta (come conferma il finale), la speranza. Egli pretende dal padre di ricordargli costantemente che loro stanno dalla parte dei buoni, che conservano il “fuoco”, che sono capaci ancora di aiutare/amare qualcuno. E lui, che ha perso tutto tranne che i malinconici e strazianti ricordi della vita che fu, vittima della sua maturità, del suo essere adulto, perde ogni riferimento forte che possa determinarne l’identità, ma sopravvive per portare a termine il suo compito, come suggerisce all’inizio la voce over di Viggo: il bambino (“se non è lui la parola di Dio, allora Dio non ha mai parlato”) cercando di resistere fino alla fine per accompagnarlo alla Vita. Il look sporco del film, dipinto dalla straordinaria fotografia di Javier Aguirresarobe e scortato dalla quanto mai opportuna colonna sonora di Nick Cave, storico collaboratore di Hillocat, suggerisce al meglio l’idea di un day after, dell’apocalisse inevitabile di cui prima o poi sarà vittima l’essere umano. Un film ben costruito, in particolare per quel che riguarda le dinamiche registiche che non eccedono mantenendosi omogenee e non pretenziose, lasciando parlare e vivere i protagonisti e la loro tragedia. Unica pecca: il finale. Uno slancio eccessivamente positivo e forse, solo forzatamente giustificabile, decisamente discordante con l’umore che pervade l’intero film.
08:09:2009 |
66.ma
mostra Venezia, 02/12 settembre 2009
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