Pochi film hanno creato un immaginario, un modo di guardare le cose, di
confondere scientemente il reale e il fittizio come LA RABBIA GIOVANE. Forse
solo NON APRITE QUELLA PORTA, che a trent’anni di distanza dalla sua prima
apparizione sul grande schermo vanta ancora una teoria infinita di cloni e
remake più o meno autorizzati, ha generato una pseudorealtà potente e
credibile come quella evocata dal capolavoro di Malick. Pseudo perché
il palcoscenico sul quale Malick collocò i propri personaggi, pur
dolorosamente reale, tendeva naturalmente all’archetipo dello scontro
brutale tra generazioni. Ma realtà perché tanto il Texas incestuoso e
grondante sangue di Leatherface quanto la provincia profondamente disturbata
di Kit&Holly sono prodotti di una fantasia che scruta ciò che esiste e lo
rende più vivido, più inquietante, ma non più finto. THE KING, nuovo
lavoro di James Marsh, già autore del discreto documentario WISCONSIN DEATH
TRIP, appartiene a pieno titolo alla schiera di film che attinge a LA RABBIA
GIOVANE come ad un calderone dal quale estrarre paesaggi (un’America rurale
e perennemente assolata), personaggi, situazioni, relazioni. Così, la storia
dell’amore proibito di Elvis e Malerie, fratellastri all’insaputa di lei,
non può non ricordare quella di Kit&Holly. Lei, Pell James, è tanto simile
fisicamente alla Sissy Spacek di trent’anni fa e tanto le assomiglia nelle
movenze da far pensare ad un episodio di clonazione; lui, Gael Garcia Bernal,
come Martin Sheen veste i panni di un cattivo ragazzo senza passato. THE
KING è, dunque, la storia di una provincia che non è mai cresciuta, nella
quale cambiano i modelli di auto, una vecchia Buick allora, un enorme pick
up oggi, ma non i rapporti di sottomissione tra padri e figli, tra Dio e
popolodiDio, tra il cattivo ragazzo senza passato e l’ingenua, quasi
narcolettica, figlia del pastore. Come nel film di Malick, anche nell’opera
di Marsh lo stratificarsi di anomalie e frustrazioni crea la violenza. Qui,
però, è lo scarto di THE KING rispetto a LA RABBIA GIOVANE. Non c’è
nichilismo nella violenza di Elvis, non c’è l’odio sottile e indistinto
verso gli altri che sembrava possedere Kit; c’è, piuttosto, un furore
che si direbbe religioso, una volontà di prevalere rispetto all’altro, di
affermare attraverso l’atto predatorio un’identità negata dal fatto stesso
di essere, in senso letterale, un figlio di puttana. La confezione è quella
del cinema indipendente d’oltreoceano, e in parte anche i temi coincidono,
ma lo stile di James Marsh, pur non privo di leziosità, ha, a tratti, uno
scatto verso l’assoluto, uno sguardo che fulmineamente si volta verso
l’umanità, abbandonando le strade di Corpus Christi, Texas. La devozione di
Marsh verso il proprio, grandioso, modello è ancora troppa e alcune sequenze
denotano un ossequio eccessivo, ma la volontà di scrutare con un distacco
intelligente, prossimo al cinismo, all’interno della propria storia si
avverte e fa decollare un film di belle interpretazioni (William Hurt, un
pastore che, per una volta, non passa per fanatico religioso, è grande) e
paesaggi dolorosi.
Voto: 26/30
08:12:2005 |