VENEZIA.66

 

the informant

di Steven Soderbergh

Stati Uniti 2009, 108'

 

Fuori Concorso

 

28/30

Mark Whitacre è un eroe? Perché no. In fondo, si tratta di un dirigente di alto bordo di una multinazionale agroalimentare parecchio sporca (e non si tratta di igiene, ma di alta finanza) che mette a repentaglio la propria danarosa carriera per smascherare le molte magagne aziendali con l’aiuto dell’FBI.
Mark Whitacre è un eroe? Anche no. Perché in fondo, lui stesso è complice della multinazionale, eccome. E soprattutto, non dice mai la verità. Si impegola in bugie e omissioni da cui non viene mai fuori, col risultato che a un certo punto nessuno è più a suo favore né potrebbe esserlo: né i suoi capi, né l’FBI, e nemmeno i suoi stessi avvocati.
Allora no, Mark Whitacre, con tutta la sua buona volontà, non è un eroe. E non è un eroe perché Soderbergh, nel girare la sua storia rifiuta il modulo della tragedia (che è quello degli eroi) e abbraccia quello della commedia – dove la tragedia, per dirla con Bertolucci, è solo quella degli uomini ridicoli. Da che mondo è mondo, la tragedia prevede l’innocenza delle creature (della natura insomma) e la colpa del destino. Nella commedia il destino è scagionato: c’è solo la colpevolezza endemica della natura.
E infatti Mark Whitacre non ha colpe in senso morale. Anzi, tanto di cappello. La sua colpa è invece letteralmente nella sua natura: è il suo disturbo bipolare che gli provoca la necessità endemica di mentire. E proprio questo disturbo bipolare è il perno della regia di Soderbergh: un gioco perfetto di alternanza tra l’azione ordinaria e la sua voce over che, anziché commentarla, salta di palo in frasca (quando Mark parla con un dirigente svizzero pensa alle peggiori sciocchezze sulla Svizzera, e così via). C’è pure un momento in cui questa doppiezza sembra re-incollarsi in unità: quando Mark gira con un microfono per conto dell’FBI e periodicamente parla al microfono come se parlasse a voce alta tra sé e sé. Ma questa utopica ricongiunzione è significativamente destinata a svanire in fretta.
Insomma: Soderbergh ha mille volte ragione a rifiutarsi di girare una tragedia laddove molti altri registi avrebbero trattato come tale una storia del genere (Davide vs. Golia eccetera). Non c’è tragedia perché non ci sono Dei (e senza Dei, classicamente, niente tragedia). Neanche quelli delle multinazionali – le quali, nonostante Whitacre finisca lui stesso in galera, alla fine incassano un colpo giudiziario mica da ridere. E nemmeno ex machina – Whitacre chiede la grazia a Bush, ma non la riceve.
Non ci sono Dei: tutto sta in una natura che si sottrae a se stessa, che si presenta come immediatamente denaturalizzata. Non c’è una “personalità”, ma un disturbo bipolare. E anzi non ci sono nemmeno persone: la compostezza della regia di Soderbergh, che arriva a trattare la commedia (e peraltro di quelle più divertenti) più come una patina adesiva appoggiata sopra che come una spina dorsale del testo (basti pensare all’uso sbracato delle musiche), raggiunge livelli di algidità tale (uguagliata solo dal precedente The Girlfriend Experience) da rendere gli uomini appendici delle cose.

Troppa è l’importanza che Soderbergh dà ai segnali di status di Mark (le macchine sportive cambiate come fossero mutande quando è ricco, i ristoranti cinesi in cui si riduce a cenare quand’è povero) per considerare il nostro non-eroe come qualcosa di più di una cosa fra le cose. Anzi, di un indice borsistico, banderuola esposta ai quattro venti del nulla di una bugia o di una cosa non detta (o di un milione) o delle oscillazioni del capitale, o del mercato della verità – nuova natura onnipotente ma inconsistente, acefala, indeterminata, bucata, e che dunque Soderbergh ci vieta di chiamare “Dio”.
 

12:09:2009

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Venezia, 02/12 settembre 2009