|
|
the ditch di Wang Bing con Lu Yo, Lian Renjun, Yang Haoyu |
|
|
|
![]() |
|
28/30
|
|
Il fossato è quello che scavano nel deserto dei Gobi migliaia di dissidenti (o, più spesso, pseudo-tali) mandati lì “a rieducarsi” dal governo cinese alla fine degli anni Cinquanta. Moltissimi muoiono quotidianamente di stenti. A filmare questa situazione-limite c’è Wang Bing, documentarista cinese ormai celeberrimo (qui al suo primo film di fiction), almeno a partire da Tie xi qu (2003). Film, questo, che ha definitivamente rivoluzionato il modo in cui si filma il lavoro: la flagranza estrema ricercata dalla sua macchina da presa (tra i più strenui e riusciti tentativi oggi di acchiappare il “qui e ora” che ha luogo davanti all’obbiettivo) altro non è che la famosa morte al lavoro di cui parla Cocteau, e che messa a contatto col lavoro fisico non può che palesare ai nostri sensi che il lavoro stesso è morte al lavoro. In The Ditch, sorprendentemente, Wang Bing il lavoro non lo filma. I rieducati che picconano nel fossato si vedono solo all’inizio, di striscio. Filma invece, e soltanto, la traccia del lavoro su chi è costretto a subirlo, gli stenti terribili che ne derivano (uno vomita per terra; arriva un altro e si mangia il vomito lasciato da questo, per troppa fame). Il lavoro, insomma, si riduce ormai esclusivamente alla morte al lavoro, non c’è più bisogno di filmare il lavoro perché filmare, frontalmente e da presso, la flagranza concreta del presente, è già filmare la morte. Si avverte quasi fisicamente la compresenza in uno stesso spazio del punto di vista e del dato brutalmente materiale che esso guarda (un topo che corre tra i letti nei sotterranei, la sbobba che cade nelle scodelle dei forzati, le coperte che avvolgono i cadaveri) – ma quest’ultimo viene nondimeno come astratto dal suo contesto, separato, avulso, soprattutto dalle normali concatenazioni narrative. Quanto ai “personaggi”, essi compaiono solo giusto il tempo che gli viene dato per morire poco dopo, con buona pace delle esigenze del “racconto”. Bing filma magistralmente il paesaggio desertico in cui è ambientata la vicenda (anche se vediamo soprattutto i sotterranei adibiti ad abitazioni ultraspartane e sovraffollate dei condannati), perché, da sempre, sa filmare qualsiasi cosa come se fosse circondata dal vuoto. Bing sa isolare qualsiasi oggetto o corpo davanti alla sua macchina da presa fino quasi ad “aspirarlo sottovuoto”, a ridurlo a nulla più che al “qui-e-ora” del suo presente, rivelando che questa stessa “nudità” del presente coincide con la morte in atto. Per questo, se è vero che il film sbuffa e arranca un po’ quando si concentra sul racconto indiretto che i personaggi fanno dei propri dolori (quanto più travolgente era il freddissimo resoconto dell’anziana ex-deportata del suo He Fengming (2007)!), si innalza invece a vette sconvolgenti quando rincorre appunto questa flagranza materiale, che è davvero difficile fissare in qualche dato tecnico; solo lui ne ha il segreto, dev’essere forse in una certa maniera di appiattire la luce, di avvicinarsi ai corpi senza sacrificarne la monumentalità, di inquadrarli sempre lievemente dal basso, di sfruttare la fedeltà del digitale, di seguire fluidamente il movimento dei corpi fino a ribaltarlo nella staticità dell’immagine che lo filma (proprio perché la distanza tra la mdp e il corpo semovente rimane costante). Momenti del genere abbondano soprattutto nella seconda parte; è il caso della fuga notturna del professore e dell’allievo, e soprattutto della disperata ricerca, da parte della moglie di un deportato, del cadavere del marito sepolto nella sabbia insieme a centinaia di altri corpi. Il massimo di (illusione di) presenza fisica, oggettificata dalla macchina da presa (resa insomma “lavoro”), tocca il massimo di assenza, la morte.
11:09:2010 |
|
|
|
|