
Conviene dirlo subito. Siamo in un
pianeta diverso da quello di Save the last dance et similia. Questo è
un film sperimentale, fino all’anacronismo forse, perso com’è in un
burrascoso vortice di decostruzione formale e narrativa molto simile a
quelli che percorrevano spesso i film degli anni 70, certo anche
grazie a Altman che è stato uno dei primi (e tra i più radicali) a
innescarli. E non si è mai fermato, bisogna dirlo. Certo, negli ultimi
anni ha approfittato di punti di partenza un po’ facili; il giallo,
per esempio, cuore pulsante di La fortuna di Cookie (che comunque per
tutto il resto guarda a Billy Wilder) o dell’ottimo Gosford Park, è
quanto di più agevole possa prestarsi all’esplosione strutturale
proprio perché è una delle forme più chiuse che la narrazione
cinematografica conosca.
Questa volta il rischio è maggiore. Abbiamo una forma semplice, il
balletto. E abbiamo un ingente massa contestuale di vite, ambizioni,
sentimenti, personaggi e circostanze che come sempre in Altman si
ramificano in modo incontrollabile e lussureggiante. Il problema sarà
dunque: che rapporto c’è tra loro? È la regia a rispondere, una regia
onnipresente, influente e pervasiva tanto quanto è disposta ad
eclissarsi e fingere come solo i grandi sanno fare di starsene a lato
(proprio come il Mr. A di Malcolm McDowell, capo della compagnia
tirannico e dolce, puro coordinatore, a un tempo autoritario e dalle
maglie larghe). I balletti sono ripresi alternando rigidamente totali
del palco e dettagli, secondo un’alternanza indipendente dai movimenti
effettivi del balletto. Questo consente di accantonare il balletto
come forma e di accedere al balletto come movimento, puro e semplice.
E infatti Mr. A afferma deleuzianamente che “non basta pensare il
movimento per diventare il movimento”, alla forma si preferisce il
frammento, la cui connaturata incompletezza testimonia precisamente
l’appartenenza a una totalità indefinibile che è appunto il movimento.
Per questo tutto il resto del film (l’ascesa professionale e
sentimentale della ballerina Neve Campbell, i numerosi personaggi
secondari, la preparazione collettiva dei balletti, eccetera) è
costituito da frammenti, da morsi disordinati di vita che da un pezzo
Altman non riusciva a mantenere lungo il corso del film così
ammirevolmente indeterminati. È il movimento a regnare, perché i mille
eterogenei miniblocchi narrativi si limitano ad attraversarsi
reciprocamente come fa sul palco il ragazzo della protagonista alla
fine del film, a venire a contatto senza svilupparsi in qualche
determinazione. Nemmeno il balletto può essere assunto a forma
totalizzante, perché (come fa la scena dell’ultima coreografia di The
Company) letteralmente si mangia i ballerini, vive solo se respira e
assorbe qualcosa di esterno, eterogeneo (perciò, la protagonista si
paga la scuola di danza facendo la cameriera), è fondato stabilmente
sul terreno indefinibile e scivoloso dei rapporti quotidiani e
interpersonali a carattere lavorativo-economico, dunque ibrido, impuro
e compromesso in partenza.
Ma non è solo questione di altmanianissimi short cuts. Lo scatto
geniale sta nell’annullare la forma con la forma stessa, nel far
deflagrare il visibile mediante il visibile stesso. Se prima dei
titoli di testa si inizia con un curioso invito a spegnere, prima dei
cellulari, gli apparecchi di riproduzione, è proprio perché Altman
gioca contro la registrazione automatica del visibile operata dalla
macchina da presa. Ci sono molte riproduzioni visibili della forma in
questo film: foto, vhs di recite scolastiche, illustrazioni,
ripetizioni di passi di danza da parte di soggetti diversi e
quant’altro. Ma esse stesse, proprio perché livellate da quella
appartata e discreta fenomenologia della superficie che è la regia
altmaniana, sono solo gocce nel mare, perdono la propria predominanza
di valore rispetto alla forma riprodotta, libera così di sciogliersi
in movimento una volta messa a contatto con tutto il resto. Quanti
personaggi poi che irrompono in scena aprendo la porta specchio (il
visibile nella sua dimensione necessariamente superficiale che si
infrange)! Ancora, la forma (il visibile) che lascia spazio al
movimento.
Ma a che giova tutto ciò? Se ci si sa lasciare andare, è una gioia per
gli occhi (finalmente liberi di scorazzare su una mappatura del
visibile sempre ribollente e cangiante) molto rara di questi tempi,
come gli splendidi (almeno per noi profani) balletti messi in scena.
Voto: 28/30
21.04.2004
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