VENEZIA.66

 

tetsuo the bullet man

di Shinya Tsukamoto

Giappone 2009, 80'

 

In Concorso

 

28/30

Dai due Tetsuo che lo rivelarono alla fine degli anni '80, sono cambiate parecchie cose. Per il regista della “mutazione”, non poteva essere altrimenti. Non può più essere questione ancora e soltanto di bombardare lo spettatore con un montaggio velocissimo e con inquadrature che si muovono ancora più velocemente a trasmettere la diabolica, inarrestabile vita dell’inorganico raccontate dalle distopie violentemente tecnologiche (e tecnofobe) della narrazione.
Tsukamoto infatti nel frattempo ha scoperto l’Umano. Non più solo l’apocalisse tecnologica dei due Tetsuo, e neppure il corpo a corpo uomo-macchina di Bullet Ballet o Tokyo Fist. Con film come Snake of June e soprattutto Vital c’è un gusto sempre più spinto per l’immagine colta nel suo nitore, nella sua compostezza traslucida apparentemente lontana dalle mostruosità cyber e dalle graffiature stridenti e inorganico-tecnologiche degli inizi: il corpo, nella sua forma più ordinaria e “naturale”, come il più spinto degli innesti artificiosi. La fisicità più banale come il trionfo più silenziosamente urlante di ciò che non ci appartiene.
Questo ultimo Tetsuo rende conto di questa definitiva mutazione: l’umano ritrovato alla fine dell’abisso della tecnica. Il film è vistosamente scisso, paurosamente schizofrenico, lacerato tra le esplosioni più “scratchate” e furiosamente cinetiche dei primi due capitoli, e un viaggio ancora più allucinante dentro la nitidezza irreversibilmente aliena dell’umano. Succede dunque che convivano su un medesimo piano di reciproca ibridazione movimentatissime parentesi cyber-visionarie in cui ci viene buttato addosso tutto il sapore acro del metallo, e il dipanarsi di una narrazione cristallinamente esemplificativa: Anthony, figlio di un ingegnere biogenetico, scopre che la madre è in realtà una creatura mutante, e lui stesso lo è, come scopre quando la rabbia dovuta all’aver visto il figlio morirgli davanti agli occhi in un incidente tira letteralmente fuori il robot in lui. Robot in perenne e inarrestabile mutazione cancerosa che una specie di scienziato pazzo interpretato dallo stesso Tsukamoto cercherà di far crescere esponenzialmente facendolo incazzare a ogni piè sospinto (la sua crescita funziona così), allo scopo di sfruttarne l’enorme potere che deriverebbe da questa forza. Ma lui stesso ne verrà inghiottito, e Anthony tornerà alla sua vita normale – salvo che la voce dello scienziato-Tsukamoto è ora dentro di lui, e la mutazione definitiva è così, di nuovo, un’altra soglia binaria tra l’umano e il non umano: fino a che punto Anthony è Anthony e non invece lo scienziato che ha inghiottito e che vive in lui?
L’inghiottimento del personaggio di Tsukamoto dentro il mostro di incontenibile ferraglia è un segnale chiaro. Questo terzo capitolo è letteralmente la mutazione del cinema di Tsukamoto (innumerevoli qui i rimandi ai suoi altri film) in se stesso: l’apocalisse tecnologica (dei primi Tetsuo) che si rende indistinguibile dall’umano più umano. Non è un caso, allora, se il leitmotiv figurativo del film sarà una ricorrente inquadratura in cui la solita orgia graffiante dei metalli che si mescolano infernalmente, firma visuale che fece grandi i primi Tetsuo, si spinge ai margini del quadro in maniera centrifuga affinché una luce bianca dal centro occupi pian piano tutto lo schermo. Solo il nitore della luce naturale è più infernale e alieno e a noi estraneo del più infernale proliferare tecnologico impazzito.
 

12:09:2009

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Venezia, 02/12 settembre 2009