Dai due Tetsuo che lo rivelarono alla fine degli anni '80,
sono cambiate parecchie cose. Per il regista della “mutazione”, non poteva
essere altrimenti. Non può più essere questione ancora e soltanto di
bombardare lo spettatore con un montaggio velocissimo e con inquadrature che
si muovono ancora più velocemente a trasmettere la diabolica, inarrestabile
vita dell’inorganico raccontate dalle distopie violentemente tecnologiche (e
tecnofobe) della narrazione.
Tsukamoto infatti nel frattempo ha scoperto l’Umano. Non più solo
l’apocalisse tecnologica dei due Tetsuo, e neppure il corpo a corpo
uomo-macchina di Bullet Ballet
o Tokyo Fist. Con film come
Snake of June e soprattutto
Vital c’è un gusto sempre più
spinto per l’immagine colta nel suo nitore, nella sua compostezza traslucida
apparentemente lontana dalle mostruosità cyber e dalle graffiature stridenti
e inorganico-tecnologiche degli inizi: il corpo, nella sua forma più
ordinaria e “naturale”, come il più spinto degli innesti artificiosi. La
fisicità più banale come il trionfo più silenziosamente urlante di ciò che
non ci appartiene.
Questo ultimo Tetsuo rende conto di questa definitiva mutazione: l’umano
ritrovato alla fine dell’abisso della tecnica. Il film è vistosamente
scisso, paurosamente schizofrenico, lacerato tra le esplosioni più
“scratchate” e furiosamente cinetiche dei primi due capitoli, e un viaggio
ancora più allucinante dentro la nitidezza irreversibilmente aliena
dell’umano. Succede dunque che convivano su un medesimo piano di reciproca
ibridazione movimentatissime parentesi cyber-visionarie in cui ci viene
buttato addosso tutto il sapore acro del metallo, e il dipanarsi di una
narrazione cristallinamente esemplificativa: Anthony, figlio di un ingegnere
biogenetico, scopre che la madre è in realtà una creatura mutante, e lui
stesso lo è, come scopre quando la rabbia dovuta all’aver visto il figlio
morirgli davanti agli occhi in un incidente tira letteralmente fuori il
robot in lui. Robot in perenne e inarrestabile mutazione cancerosa che una
specie di scienziato pazzo interpretato dallo stesso Tsukamoto cercherà di
far crescere esponenzialmente facendolo incazzare a ogni piè sospinto (la
sua crescita funziona così), allo scopo di sfruttarne l’enorme potere che
deriverebbe da questa forza. Ma lui stesso ne verrà inghiottito, e Anthony
tornerà alla sua vita normale – salvo che la voce dello scienziato-Tsukamoto
è ora dentro di lui, e la mutazione definitiva è così, di nuovo, un’altra
soglia binaria tra l’umano e il non umano: fino a che punto Anthony è
Anthony e non invece lo scienziato che ha inghiottito e che vive in lui?
L’inghiottimento del personaggio di Tsukamoto dentro il mostro di
incontenibile ferraglia è un segnale chiaro. Questo terzo capitolo è
letteralmente la mutazione del cinema di Tsukamoto (innumerevoli qui i
rimandi ai suoi altri film) in se stesso: l’apocalisse tecnologica (dei
primi Tetsuo) che si rende indistinguibile dall’umano più umano. Non è un
caso, allora, se il leitmotiv figurativo del film sarà una ricorrente
inquadratura in cui la solita orgia graffiante dei metalli che si mescolano
infernalmente, firma visuale che fece grandi i primi Tetsuo, si spinge ai
margini del quadro in maniera centrifuga affinché una luce bianca dal centro
occupi pian piano tutto lo schermo. Solo il nitore della luce naturale è più
infernale e alieno e a noi estraneo del più infernale proliferare
tecnologico impazzito.
12:09:2009
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