
Giunto al suo ottavo lungometraggio, l’austriaco Haneke aggiunge un tassello alla
propria personale rappresentazione di un’epica della disperazione, che vede
piccolissimi uomini comuni confrontarsi con tragedie immanenti ed
implacabili, in grado di cancellare dignità, umanità ed amore. Prendendo le
mosse da Funny Games, esordio
del regista austriaco, Il Tempo Dei
Lupi si apre con un’invasione violenta dell’intimità famigliare,
paradigma di quella violazione della serenità che sembra essere la cifra
stilistica di Haneke, che farà da prologo ad un viaggio doloroso e
terribile, attraversato dall’incubo della carestia e dell’abbandono. La
storia, in breve, è quella di una famiglia francese che, dopo essere stata
allontanata con violenza dalla propria abitazione, si trova a dover
affrontare una catastrofe naturale (della quale, per altro, non conosciamo
la natura né le cause) e a lottare per la sopravvivenza in una società che
ha dovuto riscoprire gli aspetti deteriori dell’istinto di conservazione. E’
chiaro da subito che la messa in scena quasi teorizzante e grottescamente
classica vista ne La Pianista è un ricordo; la fotografia è livida, il
digitale di Haneke è sgranato e crudo e pochissimo è concesso all’occhio
cinefilo, che deve accontentarsi di un paio di scene in notturna dalla
geometria interessante e ad una manciata di piani sequenza di gusto
pittorico. E’ altrettanto chiaro, e si potrebbe, con un po’ di malizia,
affermare che era difficile aspettarsi altro, che il pessimismo inumano di
Haneke non ha mutato colore né forma; la crudeltà con la quale il regista
tratta i propri personaggi è quella cinica e priva di ironia alla quale
l’austriaco ci ha abituati, quella che non offre scampo né redenzione al
gruppo di profughi, costretti a subire le angherie di un destino che quasi
tradisce il sadismo del regista/demiurgo che lo forgia. A ben guardare,
infatti, il punto debole della poetica di Haneke si ripresenta anche ne
Il Tempo Dei Lupi, un film
programmaticamente privo di ironia, che, nel tentativo di ritrarre
un’umanità ridotta all’istinto primordiale, confeziona un quadro spesso
incoerente, nel quale i rapporti tra i personaggi seguono linee
imprevedibili e gli intrecci si scontrano con forzature incomprensibili. La
predilezione (feticismo?) per lo strazio dimostrata da Haneke, tradotta in
piani sequenza infiniti analoghi a quello che costituisce la chiave di volta
di Funny Games (opera che,
inevitabilmente, visto il carattere metalinguistico, si pone come pietra di
paragone dei lavori successivi del regista), è qui portata alle estreme
conseguenze e nei momenti di maggiore sintesi di poetica e stile è facile
riconoscere la mano (un po’ pesante a dire la verità) di un regista a suo
modo estremo, tanto affascinato dalla psicologia dei propri personaggi da
arrivare a scrutarne l’abissale dolore con l’occhio del voyeur. Ciò che
depone a favore de Il Tempo Dei Lupi
è l’inquietante e, questa sì, credibile evoluzione del personaggio
interpretato dalla bravissima Isabelle Huppert, che da madre si trasforma in
lupa, pronta a mostrare unghie e denti per proteggere i propri cuccioli ed
in grado di adattarsi con la rapidità della belva alle incomprensibili prove
di coraggio alle quali una situazione disperata la costringe. Un’esperienza
cinematografica interessante, non fosse altro per lo stile autarchico e
scontroso di Haneke, un regista che, nella piena coscienza dei limiti della
propria messa in scena, persegue l’obbiettivo di mostrarci la violenza ed il
sopruso senza le giustificazioni imbarazzate a cui il cinema “per bene” ci
ha abituati.
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IL FILM A CANNES 2003 ::::
Voto: 24/30
23.06.2004
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