
L’osannato autore di Resources Humaines, che gli è valso i premi
di miglior opera Prima all’Amiens Film Festival e Miglior Regista esordiente
al San Sebastian Film Festival sbarca a Venezia col secondo capitolo della
sua meditazione sul tema del lavoro e del male sociale. L’Emploi du
temps si offre infatti come la continuazione di quel percorso avviato
dal film d’esordio sulla doppiezza del lavoro come necessità costuttiva
e trappola esistenziale al tempo stesso. In una società in cui la produttività
economica è misura e valore di tutte le cose, ivi comprese l’amore familiare
ed il rispetto, Vincent nasconde ai suoi cari lo smacco umiliante del
licenziamento e preferisce inbarcarsi in una doppia vita, frustrante e
malinconica, in cui nel week-end è padre e marito modello, fiero nel rinnovato
successo professionale e durante la settimana, in barba alla fiducia dei
familiari che lo sanno funzionario di una società ginevrina impegnata
in consulenza finanziaria ai paesi sottosviluppati, ammazza invece il
tempo vagando tra stradelle di montagna, caffè, e vetrate di uffici finanziari
dove gioca a fare l’economista. Seduto sui salotti d’ingresso di grossi
palazzi aziendali in abiti tirati e gambe accavallate legge i rapporti
commerciali e si guarda attorno altezzoso con l’aria fiera di un arrivato,
nascondendo a se stesso la tristezza di questo gioco perverso, finchè
la diplomazia del portinaio non gli ricorda di essere ospite non autorizzato
e neppure gradito.
La febbre del successo e la frustrazione per l’ideale di uno status sociale
negato dalla realtà dei fatti lo piombano in una dimensione che si direbbe
di schizofrenia clinica, dato che l’illusione della vita fittizia pare
vissuta da Vincent con gusto e fierezza come se fosse realmente calato
nel ruolo che interpreta, almeno finchè l’imprudente congegno non gli
si ritorce contro e lo sbatte di fronte alla gravità del suo stato. E’
allora che inizia a sentire il peso dell’errore, che il suo ghigno infantile
è deformato dalla pesantezza di un groppo alla gola e gli occhi si gonfiano
e si fanno lucidi. Tuttavia, nella insostenibilità del disagio mantiene
in piedi il folle inganno, pur di tenere nascosto il suo fallimento. L’affetto
dei cari e la prevedibile loro disponibilità a comprendere il suo male
non valgono ad abbattere quel muro comunicativo che Vincent ha edificato
a protezione della sua dignità, ormai affetto dalla convinzione che la
garanzia di uno status economico e sociale sia requesito imprescindibile
per il diritto al calore domestico.
Liberamente tratto da un fatto di cronaca, L’Emploi du temps spoglia
la vicenda ispiratrice del finale tragico (la strage dei familiari che
scoprono la beffa) per rendere il personaggio più vicino alla normalità
e concentrare l’attenzione sulla contraddittorietà di una impalcatura
sociale dove il valore del lavoro viene a dettare i parametri cui riferire
la propria identità. Una messa in scena austera ed essenziale che nulla
concede né a vezzi stilisitici né a esagerazioni melodrammatiche, ma si
snoda nella semplicità rigorosamente realistica di un dramma tutt’altro
che eccezionale e in lunghe sequenze in auto dove, nella solitudine del
tempo rubato alla vita, Vincent batte le strade di una civiltà di cui
vorrebbe esser parte e alimenta l’inganno del suo sogno malato.
Voto: 26/30
|