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VENEZIA.66
di Yousry Nasrallah Egitto 2009, 135'
Fuori Concorso
28/30 |
Un lungo movimento di steadycam ci fa entrare in una casa. Lussuosa. Scorrendo oggetto dopo oggetto, capiamo che è la soggettiva di qualcuno che non vedremo, e che si fa strada dentro l’appartamento scrutandolo con attenzione. Poi uno stacco, e una ragazza che si sveglia urlando “non ci sono pareti!”. Il film inizia così, e fino alla fine sarà, appunto, un tentativo di dibattersi dalle pareti troppo strette della soggettività, dell’Io. La protagonista è una giornalista affermata, ha uno show in prima serata parecchio polemico contro l’establishment governativo nazionale, ma ha anche un marito in carriera che ama molto, e che le chiede di “volare basso” per non nuocere alla sua scalata alla redazione del quotato giornale su cui scrive – che ovviamente non può avvenire senza “spintoni” dei potenti.Che fare? La situazione sembra in effetti un vicolo cieco. Ma si sbloccherà. E si sbloccherà quando la protagonista, invece di agire per risolvere il proprio problema, lascia parlare delle proprie esperienze alcune donne “problematiche” in trasmissione. Una anziana vergine convinta, una donna truffata da un cacciatore di dote che tenta di reagire, un’omicida. A quel punto, le cose si risolveranno in modo tanto autonomo quanto traumatico. Ma ne sarà valsa la pena.Scheherazade insomma non centra granché. Forse centra di più De Certeau. In questione c’è infatti il tentativo di parlare sì in prima persona, ma paradossalmente attraverso la parola degli altri. Solo quando ci si cala nella parola degli altri si trova il modo di parlare in prima persona, ed agire per sé. E il film stesso “cede” la parola. Comincia come la storia di una giovane coppia borghese e incertamente politicizzata, e poi defluisce nella visualizzazione di altri racconti, di altre storie. E solo allora la prima storia può risolversi e concludersi. La narrazione si snoda dunque attraverso un energico, volenteroso zigzag, la cui tortuosità è riprodotta dalla tortuosità di ogni singola scena, in cui una mai sopita verve didattica sfocia in una voglia testarda di “far parlare” gli oggetti e le situazioni. Per quanto l’accento rimanga saldamente sui dialoghi, ogni istante si spacca in un’insistita simbologia squisitamente letteraria (tipo indugiare su dettagli di mazzi di chiavi agitate vorticosamente per esprimere nervosismo) - ma questo, anziché limitarsi alla banalità espositiva, trasmette tutta la fatica vitale del dover cercare la propria parola dove non c’è.
05:09:2009 |
66.ma
mostra Venezia, 02/12 settembre 2009
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