da 61ma mostra del cinema di venezia

THE TERMINAL

di Steven Spielberg
Con: Tom Hanks, Catherine Z Jones

di Marco GROSOLI


"Welcome to the United States. Almost." Così Dixon, capo della sicurezza del JFK, introduce Victor Navorski alla sua bizzarra prigionia all'interno dell'aereoporto. Gli Stati Uniti come anticamera (l'aereoporto), e dunque il consumismo come eterna promessa di soddisfazione mai soddisfatta, sostituzione della vita attraverso il suo simulacro. Trionfo del CHIUSO spazio aeroportuale, e di una sceneggiatura addirittura blindata seguita però in modo così aderente e ossessivamente diligente da far sbattere lo spettatore addosso alla diabolica perfezione iper-controllata del testo, e metonimicamente alla segregazione subdola che è il nostro iper-sorvegliato presente, in un urto veramente vitale.
L'aeroporto straborda di negozi, di merci. è un unico grande feticcio in miniatura della società che sta fuori. Victor, cittadino dell'immaginaria Krakhozia, diventa apolide perché durante il volo il suo stato viene colpito da una guerra civile e il governo USA non lo riconosce più. Ergo, non può uscire dall'aereoporto. Non gli Stati Uniti, la terra promessa dove, lo dice Victor stesso, ogni cosa ha il 50% di possibilità di riuscire, ma sempre costantemente la loro copia, il loro simulacro (l'"ipermercato" aereoportuale). Non il cittadino che sottostà a un potere, ma un senza patria contro una Legge (al di sopra dei suoi stessi rappresentanti, come nota il superiore di Dixon) invincibile perché come in Minority Report prevede le sue mosse dei soggetti e prescrive e preordina le stesse opportunità di trasgressione. E soprattutto, ha gli occhi sempre puntati. Victor si salverà creando un ulteriore mini-mondo solo suo, costruendo nel non-luogo aeroportuale senza spazio, dunque) uno spazio "suo" (anche se in un luogo non suo), estendibile in una serie di decisive relazioni amichevoli col personale del terminal. L'amore con la bella hostess sempre in fuga da tutta lo aiuterà a fuggire ma a prezzo dell'amore stesso: troverà gli USA nell'ingegnoso finale imparando a muoversi nel mondo del falso valutandolo per ciò che è.
La prima parte spinge a fondo sul comico, continue gag incentrate sulla paradossale interazione obbligata tra un non-soggetto senza patria e dunque senza identità, e un non-luogo. Poi il registro invece di cambiare viene scientemente smarrito: le carte vengono scombinate e mescolate (scorrono parallele le storie della hostess, degli amici inservienti, dell'opposizione impossibile con l'autorità), in modo che nessuna prevalga. Così, non c'è più una storia da portare alla fine, ma un non-soggetto che si lascia sballottare dall'uno o dall'altro legame sociale. Certo, dopo i fuochi d'artificio della prima ora la seconda così strutturata può lasciare amareggiati, rimane comunque una forte parabola sul nostro presente iper-sorvegliato, sottilissima e complessa.

Voto: 27/30

01/09/2004


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