
Iniziamo dalla fine. Frank Corvin (Eastwood) e la moglie hanno lo sguardo
rivolto ad una notte stellata, e nei loro visi si legge un misto di speranza
e fede: sembrano sapere che lassù c'è qualcosa. Stacco.
La m.d.p. inizia a muoversi in direzione della Luna, la raggiunge, la
aggira, fino a toccarne - in un unico, virtuale, piano-sequenza - la superficie.
Lì è disteso un astronauta che lo spettatore sa essere Frank
"Hawk" Hawkins, e il movimento di macchina si chiude sulla visiera
nera del casco, quasi a trapassarla. Eastwood vorrebbe, ma non può,
mostrare gli occhi di un uomo sereno: non lo fa solo perché Hawk,
sulla Luna, ci è giunto morto. Ma avrebbe potuto poiché,
come sappiamo fin dalle primissime inquadrature, arrivare sulla Luna era
il sogno più grande del personaggio interpretato da Tommy Lee Jones.
La conclusione di SPACE COWBOYS è degna di una bella favola: impossibile
ma deliziosa. Logica vorrebbe infatti Hawk ridotto in cenere, e invece
Eastwood ha scelto di insistere anche in chiusura - con questa immagine
apertamente naif (il fisico di Lee Jones è chiaramente troppo grande
rispetto al paesaggio circostante) - sulla strada del fantastico, mostrandocelo
non solo in tutta la sua integrità, ma perfino supino, con il capo
sorretto da una roccia, quasi fosse lì a godersi lo spaziale panorama,
ascoltando Frank Sinistra che canta Fly me to the moon.
La sequenza finora descritta è insieme conclusiva e sublimante
di tutta una serie di dicotomie che attraversa per intero SPACE COWBOYS.
Presente e passato innanzitutto, e poi esperienza e goffaggine, istinto
e ragione, realtà e sogno. E proprio alla rincorsa di un grande
sogno è trascorsa l'esistenza dei quattro della missione Daedalus,
che Eastwood ritrae quando ormai sono degli ex-astronauti. Un desiderio
che, nella sua grandezza, non ha tuttavia pochi punti di contatto con
i sogni di quei ragazzini - alcuni anche presenti nel film in visita alla
base - che vorrebbero (chi, prima o poi, non ha voluto fare l'astronauta?)
raggiungere la Luna. La stessa Luna che per Frank e soprattutto Hawk,
fin dal prologo in bianco e nero, nel 1958, sembra ad un passo dall'essere
raggiunta; e invece i loro caratteri e la volontà altrui hanno
trasformato il sogno in rimpianto e l'amicizia in lite.
Dicevamo delle dicotomie: compresenze ma anche attriti. Ciò è
chiaro già dalla genesi dell'emergenza per cui la missione Daedalus,
uccisa nel '58 dalla nascita della NASA, torna in orbita quarant'anni
dopo. Ikon, satellite russo per (finte) telecomunicazioni ma carico invece
di testate nucleari, perde colpi e nessuno, nemmeno i nuovi e prestanti
geni dell'high-tech, sa come porvi rimedio. L'unico con la preparazione
necessaria è proprio Frank Corvin, ex comandante di quella missione
nonché inventore del sistema-guida del veicolo spaziale. In gioco
ci sono importanti equilibri diplomatici ma d'istinto - e qui il film
mostra già la sua seconda faccia - Frank rifiuta, e lo fa perché
a chiederglielo è lo stesso Bob Gerson che, facendo di una scimmia
il primo americano nello spazio, gli aveva negato la sua occasione, per
giunta umiliandolo pubblicamente. I quattro di Daedalus erano pionieri,
il cui concreto contributo ai progressi dell'uomo nello spazio venne cancellato
per far posto alla NASA, cioè al nuovo. Ora il nuovo, spalle al
muro, chiede aiuto al vecchio e questo Corvin, orgoglioso uomo tutto d'un
pezzo - e in ciò eastwoodiano vecchia maniera - non può
accettarlo. Quale migliore occasione, però - con formula western
- per "regolare i conti"? Perché l'antitesi (il duello?)
si risolve, prima di ogni altra cosa, sul piano personale. Un po' come
ne GLI SPIETATI (1992), dove l'epica lascia il passo al cinismo ed al
calcolo. Per Frank non esiste ragion di stato, conta solo la rivincita,
lo sfogo del rancore; d'altronde, per sua stessa ammissione, egli è
stato l'unico yankee pronto ad uccidersi il giorno in cui Armstrong vide
la superficie lunare. Lo stesso Gerson, poi, si muove esclusivamente per
interesse: fu lui, prima di insabbiare tutto, a farsi rubare (dal vecchio
KGB) la tecnologia ora montata su Ikon. E adesso non ha scelta: accetta
lo spudorato ricatto di Frank e fa resuscitare l'intero team Deadalus.
Ma SPACE COWBOYS - è importante ribadirlo - rimane un film di consumo,
per quanto girato con classe. E allora, in attesa della resa dei conti,
Eastwood apre una lunga e agile parentesi sulle forzate tappe di addestramento
dei quattro "anzianauti": guida manuale a fronte del totale
controllo computerizzato; chili di troppo contro superatletismo; buon
senso e non doppia laurea. E poi l'avanzare degli anni (dentiere, vista
corta, il parlare di rughe) e una ritrovata goffaggine infantile (ecco
la seconda, divertente antinomia) generano - nel contesto dell'iper-efficienza
psicofisica - gag non così consuete nel cinema eastwoodiano. Comunque
sia, la parte centrale del film serve a Clint soprattutto per approfondire
la figura di Hawk, centrale quanto e forse più di quella di Corvin.
I due non si parlavano da dodici anni, perché Hawk imputa a lui
il fallimento della missione. Se a Jerry (Sutherland) e Tank (Garner)
è dedicata meno attenzione, per Hawk è stata scritta perfino
una storia d'amore. E proprio i dialoghi tra "il Falco" e Sara
Holland, una delle responsabili della missione, danno luce non al duro
ma ad un'individualità complessa, forgiata da una fortuna non sempre
amica. Per vivere si arrangiava organizzando voli acrobatici per qualche
nerd; ora i test della NASA rivelano un tumore al pancreas. Ora il film
si alza di tono, l'allegria si scioglie, ma a stroncare ogni tentazione
di patetico Eastwood regista sposta l'attenzione su se stesso personaggio:
il ricatto si evolve, o parte tutto Deadelus o niente [1]. E non è
che Frank - finalmente, direbbero alla NASA - cominci d'improvviso, con
una scelta incoerente a tutta una vita, a fare il tanto sospirato gioco
di squadra: in realtà i trascorsi gli hanno mostrato in Hawk qualcuno
che gli somiglia, con un destino (il sogno sfumato) analogo al suo, fatta
salva l'incapacità - vista anche la prematura morte della moglie
- di costruirsi un'esistenza lontana dalle strade del passato.
Ora lo spettatore conosce meglio i quattro e sa cosa aspettarsi da loro
quando - secondo i dettami del genere - la missione avrà i suoi
imprevisti. Ikon fa davvero paura: senza luci nel buio, all'innesco, i
potenti e amplificatissimi stridii metallici emergono dal silenzio spaziale
e lo rendono simile ad una belva svegliata d'improvviso. Si apre così
la sezione più dichiaratamente fantascientifica della pellicola,
in cui è d'obbligo il ricorso - a differenza di gran parte del
percorso autoriale eastwoodiano (escluso soprattutto FIREFOX - VOLPE DI
FUOCO del 1982) - alla tecnologia degli effetti speciali. Ma non è
nemmeno da prendere in considerazione l'ipotesi che l'autore di BIRD e
HANKYTONK MAN potesse, in qualche modo, farsene condizionare oltre misura.
Per lui la computer animation non è poi così diversa dalla
colonna sonora, dalla sceneggiatura, da un attore; è solo un elemento
del film, funzionale al tutto. Ieri probabilmente avrebbe filmato il collasso
di Ikon con altre modalità: ora si fa (e conviene) così,
senza dimenticare poi il maggiore coinvolgimento del pubblico.
É inevitabile allora non approfondire il confronto tra SPACE COWBOYS
e tutta una tradizione di "cinema dello spazio". Per restare
ad anni recenti (ma come tacere di Kubrick e Tarkovskij?) prima di Eastwood
abbiamo visto APOLLO 13 (1995) di Ron Howard, ARMAGEDDON (1998) di Michael
Bay, e il più recente De Palma: MISSION TO MARS (1999). Il primo
(come del resto altri prodotti simili) è una sorta di manuale per
aspiranti registi di scene standard sulla vita in una navicella spaziale
americana e sulle modalità di comunicazione con la base di Huston.
Il film di Bay, assoluto prototipo di blockbuster, narra come il nostro
di una spedizione forzatamente accelerata, messa in piedi con astronauti
improvvisati (nella vita estrattori di petrolio), scelti perché
i soli in grado di attenuare una minaccia per l'intero pianeta. Di De
Palma si ricordano con chiarezza i tempi amplificati, la povertà
digitale, il valore dei rapporti personali oltre i tipi e il tema del
sacrificio. Space Cowboys, seppur a vario titolo, sembra attingere da
tutti e tre gli esempi portati, ma naturalmente sceglie una quarta via,
come sempre per Eastwood vs. i generi. Pensiamo almeno all'ultimo decennio:
oltre allo scontato western, la filmografia eastwoodiana comprende il
film biografico (Bird), l'action-movie (LA RECLUTA), il thriller (POTERE
ASSOLUTO), il giudiziario (FINO A PROVA CONTRARIA), il romanzo di formazione
(UN MONDO PERFETTO) e perfino il mélo (I PONTI DI MADISON COUNTY).
Il confronto con Kubrick non regge, ma è certo comunque che ognuno
dei lavori citati descrive un approccio decisamente personale alla tipologia
filmica di volta in volta in questione, anche se non è questa la
sede per parlarne esaurientemente [2]. Ciò emerge anche già
da un epidermico confronto, per esempio, con il finale di ARMAGEDDON,
dove perfino l'inedito sacrificio finale di una star come Bruce Willis
rientra pienamente nella scontata ottica narrativa "per il bene dell'umanita"
[3], nonché nell'intenzione di non turbare oltremodo l'umore di
chi, pagando, quel film avrebbe scelto di vedere. Qui le cose stanno diversamente:
certo, non che SPACE COWBOYS - lo abbiamo già detto - sia un film
nato per sconvolgere il proprio pubblico, ma nemmeno per rintronarlo.
L'immolazione di Hawk, grazie alla quale sì il mondo (o meglio
l'America) sarà salvo, ha soprattutto il valore fantastico della
realizzazione di quel sogno fino allora seguito invano, ed è in
buona parte privo di carattere eroico poiché opera di un personaggio
che già sappiamo essere spacciato (il cancro al pancreas).
Tutto quanto accade prima del piano-sequenza finale che già abbiamo
descritto, non modifica più di tanto ciò che Eastwood ha
fin qui tracciato, e l'episodio dell'incredibile ritorno sulla Terra non
fa che ritessere l'antinomia tra vecchi metodi e progressi tecnologici:
il computer salta, ma sarà sufficiente - Hawk docet - il buon vecchio
"colpetto di freno". Allo stesso modo il ricorso all'effettistica
resta al servizio di una regia classica, con tempi più riflessivi,
in cui domina il campo/controcampo e non viene prodotta un solo fotogramma
in più rispetto a quanto richiesta dalla nuda narrazione. Vecchio
e nuovo, dunque, anche per quanto concerne la realizzazione di film "medi":
perché se è vero che al cinema non è sempre necessario
disquisire dei massimi sistemi, Space Cowboys e il vecchio Clint sono
la prova di come si possa anche scegliere di gustarsi un bel secchiello
di popcorn senza per questo accontentarsi esclusivamente della magie del
Dolby Surround.
Voto: 27/30
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