Perdersi e disperdersi nella liquida modernità equivale al
non cercarsi. Corrisponde esattamente alla mancata consapevolezza del
proprio errare, all’accettazione implicita e mai cosciente di un continuo
di-vagare.
Il cinema contemporaneo si fa sempre più spesso portavoce della condizione
dell’individuo (post)moderno, abituandoci a sintomatiche pause e radicate
incertezze, insistendo sul disorientamento di personaggi che continuano a
perdersi (in tutte le accezioni possibili del termine).
Nato probabilmente con ambizioni affini, ma lontano dalla concretizzazione
delle stesse, il nuovo film della Coppola,
Somewhere, quasi appendice e
vaga citazione del precedente Lost
in Translation (anche se dichiaratamente distante dalla Trilogia
della giovinezza inquieta), risulta una parentesi involuta, poco
approfondita e inconsistente.
Il protagonista, Johnny Marco (Stephen Dorff), star del cinema
hollywoodiano, vive in una condizione di torpore, di apatica indifferenza.
La sua emotività irrisolta è come anestetizzata, costantemente atona. Vive
nel lusso concedendosi tutto, tra donne e Ferrari, feste e pasticche e
l’abitudine dell’avere smorza i suoi entusiasmi.
La monotonia delle sue giornate verrà scossa dall’arrivo della figlia Cleo
(la giovanissima Elle Fanning), nata dal suo matrimonio fallito. Il recupero
del loro rapporto, rapporto che sembra accennare spesso a momenti privati
della storia di Sofia e dell’ingombrante figura paterna, creerà i
presupposti per riflessioni esistenziali e per un’eventuale rinascita.
Il film si apre con prolungati silenzi, pause e digressioni nella vita di
Jhonny e prosegue alternando numerose e brusche ellissi temporali, quasi
come a voler estendere l’indefinitezza dell’avverbio di luogo del titolo,
anche al tempo.
Lo sfondo è tanto definito quanto impalpabile. La scelta, tra l’altro più
volte abbracciata dalla regista, di abitare l’hotel (in questo caso il
leggendario Hotel Chateau Marmont), per antonomasia luogo di passaggio e di
mancata stabilità, ricalca e giustifica l’indeterminatezza dell’accezione
del titolo.
La riflessione sul mondo dello spettacolo e sulla perdizione che esso sembra
necessariamente implicare è fin troppo esplicita, scontata poiché trita e
ritrita e argomentata, tra l’altro, con una (fortunatamente) breve e quasi
immotivata incursione nel jet set italiano, che si autocondanna esempio di
stupidità e superficialità.
La Coppola disegna un ritratto afasico e incolore della biografia di una
star, evitando qualsiasi approfondimento sulla reale dimensione
“interiore”del protagonista.
è un raccontare
approssimativo e poco intimo, indolente.
La regista figlia d’arte perde la nitidezza dei lavori precedenti,
abbracciando la direzione di un cinema che dimentica la qualità e che si può
(e deve) definire sempre meno confacente ai requisiti del cinema
indipendente.
04:09:2010 |