somewhere

di Sofia Coppola

con Stephen Dorff, Elle Fanning
Altri interpreti: Benicio Del Toro, Michelle Monaghan

LEONE D'ORO VENEZIA.67

 

 

23/30

 

Perdersi e disperdersi nella liquida modernità equivale al non cercarsi. Corrisponde esattamente alla mancata consapevolezza del proprio errare, all’accettazione implicita e mai cosciente di un continuo di-vagare.
Il cinema contemporaneo si fa sempre più spesso portavoce della condizione dell’individuo (post)moderno, abituandoci a sintomatiche pause e radicate incertezze, insistendo sul disorientamento di personaggi che continuano a perdersi (in tutte le accezioni possibili del termine).
Nato probabilmente con ambizioni affini, ma lontano dalla concretizzazione delle stesse, il nuovo film della Coppola, Somewhere, quasi appendice e vaga citazione del precedente Lost in Translation (anche se dichiaratamente distante dalla Trilogia della giovinezza inquieta), risulta una parentesi involuta, poco approfondita e inconsistente.
Il protagonista, Johnny Marco (Stephen Dorff), star del cinema hollywoodiano, vive in una condizione di torpore, di apatica indifferenza. La sua emotività irrisolta è come anestetizzata, costantemente atona. Vive nel lusso concedendosi tutto, tra donne e Ferrari, feste e pasticche e l’abitudine dell’avere smorza i suoi entusiasmi.
La monotonia delle sue giornate verrà scossa dall’arrivo della figlia Cleo (la giovanissima Elle Fanning), nata dal suo matrimonio fallito. Il recupero del loro rapporto, rapporto che sembra accennare spesso a momenti privati della storia di Sofia e dell’ingombrante figura paterna, creerà i presupposti per riflessioni esistenziali e per un’eventuale rinascita.
Il film si apre con prolungati silenzi, pause e digressioni nella vita di Jhonny e prosegue alternando numerose e brusche ellissi temporali, quasi come a voler estendere l’indefinitezza dell’avverbio di luogo del titolo, anche al tempo.
Lo sfondo è tanto definito quanto impalpabile. La scelta, tra l’altro più volte abbracciata dalla regista, di abitare l’hotel (in questo caso il leggendario Hotel Chateau Marmont), per antonomasia luogo di passaggio e di mancata stabilità, ricalca e giustifica l’indeterminatezza dell’accezione del titolo.
La riflessione sul mondo dello spettacolo e sulla perdizione che esso sembra necessariamente implicare è fin troppo esplicita, scontata poiché trita e ritrita e argomentata, tra l’altro, con una (fortunatamente) breve e quasi immotivata incursione nel jet set italiano, che si autocondanna esempio di stupidità e superficialità.
La Coppola disegna un ritratto afasico e incolore della biografia di una star, evitando qualsiasi approfondimento sulla reale dimensione “interiore”del protagonista.
è un raccontare approssimativo e poco intimo, indolente.
La regista figlia d’arte perde la nitidezza dei lavori precedenti, abbracciando la direzione di un cinema che dimentica la qualità e che si può (e deve) definire sempre meno confacente ai requisiti del cinema indipendente.
 

04:09:2010