Domanda: “Questo film è un thriller ma è anche un noir. Lei pensa che
il noir stia diventando uno strumento per raccontare le contraddizioni e le
assurdità della realtà occidentale contemporanea?”
Risposta: “Credo che nella società moderna ci siano dei buoni e dei
cattivi. I cattivi sono più facili da individuare ed è divertente per il
regista poterli rappresentare. Questo tipo di personaggio è molto popolare
fra il pubblico inglese ed io, in quanto scozzese, devo esserne rimasto
influenzato”.
D Da qualche tempo a questa parte il thriller sembra essere divenuto
un raffinato esercizio calligrafico. I dialoghi sono brillanti e ci si
interroga spesso sul senso della vita, come dimostrano i film di Tarantino,
o I soliti sospetti. Quanto è
importante questo aspetto per i suoi film?
R Io credo che dei buoni dialoghi siano fondamentali per ogni tipo di
film e che questo discorso riguardi la valutazione del cinema in generale.
Nel nostro caso avevamo a disposizione dei personaggi dalle caratteristiche
molto accentuate e poco realistiche e questo ci ha permesso di giocare con i
dialoghi e di divertirci molto durante la lavorazione. Lo stesso è successo
anche con Gangster Number One.
L’unico difetto di questa grande sceneggiatura, ovvero il fatto che tutti i
personaggi parlassero allo stesso modo, è così diventato un ulteriore punto
di forza.
D Sono molti i riferimenti cinematografici presenti: Alfred
Hitchcock, l’Agente 007, I soliti
sospetti. Quanto sono importanti le citazioni per questo film?
R Non ho scritto io la sceneggiatura e quindi non posso dire molto,
ma credo che ci siano più riferimenti culturali che cinematografici. Io ad
esempio nutro la mia cultura cinematografica quasi esclusivamente con i film
per ragazzi che vedo con i miei figli. Si tratta comunque di un film del
tutto diverso rispetto a I soliti
sospetti, che sembra un film del tutto normale prima degli ultimi
bellissimi dieci minuti che sono assolutamente pazzeschi. Ad ogni modo credo
che quella dell’autoreferenzialità del cinema sia una questione importante.
Durante il tour americano non facevano che farci presenti le similitudini
con Tarantino, e mi fa sorridere che accada lo stesso qui in Italia, un
paese che produce il cinema più bello del mondo.
è stata proprio questa
autoreferenzialità a creare il personaggio del gangster come noi lo
conosciamo, ma se se ne abusa si finisce per non dire mai nulla di nuovo.
D I due capi malavitosi del film appartengono a due minoranze etniche
che convivono a New York: gli afroamericani e gli ebrei, che paradossalmente
passano dall’emarginazione ai vertici di due enormi associazioni a stampo
mafioso. è stato divertente
creare questo mondo attorno a loro?
R Sì, devo dire che una delle cose più divertenti del film è stata
quella di giocare ad offendere ogni tipo di minoranza tranne gli scozzesi
(ride, n.d.r.). La gente si prende troppo sul serio e noi ci siamo
divertiti ad attaccare i vari stereotipi che riguardano razze e categorie,
come ad esempio quelli riguardanti gli omosessuali. Se non altro in questo
film il boss non è italoamericano (ride, n.d.r.)
D è stato difficile
mettere assieme il cast? E che ne pensa degli ultimi personaggi che Bruce
Willis ha interpretato, tutti un po’ anziani e di secondo piano? Si tratta
di una svolta vera e propria o è soltanto una preferenza momentanea?
R Bruce Willis mi ha chiamato dopo aver visto
Gangster Number One per dirmi
che il film gli era piaciuto, e da allora è cominciata una collaborazione di
cui questo film è stato il primo risultato. Lui è molto attento ai film che
escono e durante la lavorazione è sempre presente, sia per quanto riguarda
il suo personaggio, che studia nei suoi aspetti fisici e mimici più minuti,
sia per quel che riguarda il lavoro degli altri. Ad esempio ha assistito a
molte delle scene di Ben Kingsley. Per quel che riguarda i suoi ultimi
personaggi credo solo che voglia discostarsi dallo stereotipo dell’uomo duro
da action movie che lo ha assorbito nella prima parte della sua carriera.
Per mettere assieme un cast del genere ci vuole molto denaro o un’ottima
sceneggiatura, e nel nostro caso è stata quest’ultima ad attirarli, perché
dopotutto gli attori vogliono interpretare delle belle pellicole. Gli attori
vogliono anche un regista che tenga in mano il timone e li diriga e in tal
senso sono basilari i primi cinque minuti. Se questi vanno bene si crea
un’atmosfera meravigliosa, altrimenti è difficile andare avanti. Ho sentito
a volte questa difficoltà con Morgan Freeman, che alla fine dell’ultimo
giorno di ripresa mi ha confessato di non aver capito neanche una delle
indicazioni che gli avevo dato durante le ultime riprese. Spero scherzasse.
(ride, n.d.r.)
D è interessante il
riferimento a “Shmou", un fumetto americano degli anni ’40. Qualcuno sul set
sapeva di cosa si trattasse?
R A dire il vero Morgan Freeman era l’unico a conoscerlo.
D Il suo prossimo progetto sarà
The equilizer? Sbaglio o
lavorerà presto con Paul Bettany?
R Sì, Paul Bettany interpreterà per me Enrico II in
Four nights, un action movie
pieno di scozzesi, gay e rabbini (ride, n.d.r.). A parte gli scherzi,
sarà un film ambientato nel 1170 e lo girerò in Scozia. Sto facendo il cast
proprio adesso quindi preferisco non parlarne per scaramanzia.
D Abbiamo parlato di tutti ma non di Josh Harnett, il giovane
interprete di Slevin, il protagonista del film.
R Credo che Josh rimarrà bello solo per un altro paio d’anni (ride,
n.d.r.). A parte gli scherzi, Josh è un ottimo attore con cui ho già
lavorato in passato. Ha deciso di interpretare il film con grande
naturalezza, rinunciando fra l’altro all’allenamento fisico di rito, e
questo ha dato al tutto una grande ventata di freschezza.
D Credo che lo spettatore non impieghi molto a capire che il bimbo
dell’inizio e Slevin sono la stessa persona. Avete lavorato sulla loro
fisionomia proprio per offrire al pubblico questa intuizione?
R Non volevo mentire al pubblico e a tal fine era importante che
entrambi gli sguardi avessero la stessa anima. Ad ogni modo questo dualismo
ha causato non pochi problemi a Josh, che mi chiedeva sempre quali dei due
aspetti dovesse rappresentare in una data scena, ma io gli ho solo detto di
cercare di non fingere. Non mi preoccupavano tanto i tempi di comprensione,
piuttosto avevo a cuore che il pubblico si interrogasse anche riguardo agli
altri personaggi. Questa struttura complessa ha reso molto difficile la
lavorazione del film. Mi chiedevo se fosse quello il modo giusto per
dirigere gli attori e se il pubblico avrebbe apprezzato. La scenografia, con
le sue carte da parati che ricorrono in tutto il film, non fa che accentuare
questo carattere di confusione, e lo stesso fa la colonna sonora.
D La mia è una domanda tecnica. Nel film i due palazzi in cui
risiedono i boss si affacciano l’uno sull’altro, ma a tratti sembrano essere
uno solo. è così?”
R. In effetti quei due palazzi esistono davvero, ma in un attico di
uno dei due vive Robert De Niro, e quindi ci siamo ritrovati a girare in
studio solo il muro e la finestra e a riprendere solo uno dei due palazzi
dando l’impressione che fossero due. Ci siamo scontrati con dei limiti
architettonici effettivi e i due palazzi sembrano molto più vicini di quanto
non siano davvero.
D Anche in Appuntamento a
Wicker Park ha affrontato il problema dell’identità personale, ma con
un uso del tutto diverso della cinepresa. Ammesso che ce ne sia uno, dov’è
il filo conduttore?”
R Mi piace girare dei film privi di una struttura lineare e mi servo
spesso dello schermo diviso. In
Appuntamento a Wicker Park questo era il mezzo che mi permetteva di
raccontare una storia sotto diversi punti di vista. Voglio aggiungere che
questo è il film di cui fin’ora vado più fiero. Lo staff ci ha lavorato con
passione e la risposta da parte di pubblico e critica sembra essere buona.
Spero che accada lo stesso anche in Italia e che il pubblico continui ad
avvicinarcisi con l’intento di divertirsi e non di sottoporlo ad una severa
critica.
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