Con SIMON KONIANSKI, distribuito in Italia da Fandango, Micha
Wald, classe 1974, è al suo secondo film. Il primo, VOLEURS DE CHEVAUX, un
affresco storico e drammatico sulla cultura cosacca, fu selezionato al
60esimo Festival di Cannes, al Nouveau Cinéma di Montreal e al coreano
Festival di Pusan. Questa volta si tratta invece di una commedia in piena
regola.
Il giovane regista belga, di origine polacca, riprende i temi del
cortometraggio "Alice et Moi" (2004) e li sviluppa appieno in un susseguirsi
di gag a passo di ritmo ebraico, cha cha cha e samba. Il grande amore per il
contrasto è dunque dichiarato subito dal contributo musicale che, facendo da
contrappunto alle immagini, aiuta a rendere ancora più godibile l’avventura
del protagonista Simon (Jonathan Zaccai), eterno adolescente trentacinquenne
lasciato dalla donna della sua vita, la danzatrice goy Corazon (Marta
Domingo) dalla quale ha il piccolo Hadrien (Nassim Ben Abdelmoumen). Simon
torna quindi a vivere con suo padre Ernest (interpretato dal geniale
Popeck), reduce dai lager, ma i due non si sopportano: Simon è “il figlio
sciagurato”, disoccupato, filopalestinese e contrario alla pratica barbara
della circoncisione il cui approccio ateo e razionale è totalmente opposto a
quello di suo padre, di zio Maurice (Abraham Leber) e di zia Mala (Irène
Herz) che incarnano la vecchia generazione, iperrispettosa delle tradizioni,
che ha vissuto l’esperienza devastante della guerra e della deportazione.
Nonostante i conflitti, alla morte di Ernest, Simon, pur di
esaudire l’ultima volontà del padre, quella di essere sepolto nel villaggio
natale accanto al primo amore, affronta un lungo e rocambolesco viaggio fino
in Ukraina con figlioletto, zii e tanto di salma caricata in macchina.
è l’iniziazione di Simon, la
scoperta delle proprie radici, l’accettazione di ciò che non può più
rinnegare.
La conferenza stampa con Micha Wald, tenutasi alla Casa del Cinema di Roma
il 7 Aprile, si rivela un incontro ricco di spunti, un momento insieme
intenso e spassoso come fu lo scorso ottobre in occasione della
presentazione del film al Festival Internazionale della capitale nella
sezione Extra. La rielaborazione dei racconti dalla sua famiglia di origine
di piccoli artigiani, che scappa negli anni ’20 in Belgio dalla Polonia,
diventa una sceneggiatura riuscitissima capace di trattare l’eredità
dell’olocausto attraverso i toni della commedia. Del resto, come insiste
Micha, per esprimere un tema così fortemente tragico si prospettano solo due
possibilità: “Scegliere la via deprimente per rappresentare tutti i matti e
i mostri della mia famiglia o avere un approccio totalmente diverso,
considerando che alcuni episodi nella finzione filmica sono al di sotto
della realtà vissuta!”. Sua nonna, per esempio, è una sionista convinta che
dice cose tremende sugli arabi e i palestinesi. Al film ha reagito chiedendo
a Micha perché non avesse fatto qualcosa di più simile a TRAIN DE VIE o a
Spielberg, lavori da cassetta con incassi maggiori.
Lo humor yiddish diventa fondamentale per rappresentare l’irrapresentabile:
un campo di sterminio, le condizioni inumane, l’istinto di sopravvivenza, la
reazione dei sopravvissuti con i lori ricordi e i loro racconti logorroici.
La sequenza del campo di Majdanek diventa allora la più importante del film,
aneddoto di un viaggio della memoria intapreso dallo stesso Micha all’età di
15 anni. è da qui che Simon
comincia davvero a comunicare con il “fantasma” di suo padre che spunta da
una delle latrine insieme all’amico mai più tornato. “Ad Auschwitz i
deportati chiamavano i gabinetti Radio Cessi perché erano il solo rifugio in
cui potessero parlarsi”.
La felpa con la scritta “Baghdad”, trovata durante le riprese e indossata da
Simon, la dice lunga sulla grande dote salvifica dell’autoironia.
13:04:2010
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