Molto presto, l’isola del titolo fa intendere a chiunque osi
avventurarcisi “lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate”. Ancora prima,
però, lo spettatore deve abbandonare la speranza di trovarsi davanti lo
Scorsese che si aspetta lui, quello magniloquente dei vari
Goodfellas, Casinò e
quant’altro. E deve cacciarsi in testa una volta per tutte, se non lo ha già
fatto, che da svariati anni (almeno da
Gangs of New York) il regista
new-yorkese è entrato in una fase nuova, e non meno interessante. Come in
certi magnifici relitti malavitosi al crepuscolo (che lui stesso ha messo in
scena più di una volta), la vitalità onnivora e senza freni ha fatto spazio
a una perplessa interrogazione sul senso di tutto questo. Conviene
prestargli ascolto, come si dà ascolto a chi ha più esperienza di noi.
Anni Cinquanta. Teddy Daniels, agente federale, arriva con un collega
sull’isola di Shutter, sede di un manicomio all’avanguardia e di altissima
sicurezza, per indagare sulla scomparsa di una paziente. Ben presto il
quadro si allarga, fino a comprendere tutto e il contrario di tutto:
nazismo, anticomunismo, biopolitica. Incluso, naturalmente, lui stesso.
Di più, non si può svelare. Non perché non si possa anticipare la “soluzione
della trama”, ma perché non ci si può illudere di venire a capo di un virus
che, sempre è comunque, viene prima di noi. Bisogna passarci dentro; bisogna
passare attraverso infinite contorsioni narrative che non finiscono mai di
avvolgersi su se stesse e di rianagrammarsi (ops! Spoiler).
E soprattutto, bisogna scontrasi con la nostra immagine riflessa, ovvero con
un Di Caprio che Scorsese continua ad inventare e plasmare film dopo film,
come un ex leone della malavita alleva un pupillo sapendo già che lo tradirà
(come già fece De Niro, del resto). Come già in
Revolutionary Road, Di Caprio
incarna fisicamente la rabbia selvaggia impotente di dover combattere con un
nemico che non si vede, e di doversi accontentare di fare a cazzotti con
l’aria.
Perché questo nemico che non si vede è la propria immagine. È il frame,
la cornice, il quadro che comprende il soggetto che crede di poterlo
dominare e maneggiare da fuori e dall’alto. E allora il soggetto si dibatte
come un insetto; la regia non può che guardarlo, da lontano, con una
sinistra compiacenza. Che non è quella di Kubrick per le sue cavie da
laboratorio (Cruise su tutti in Eyes
Wide Shut) sottomesse alla logica implacabile dell’inquadratura
perfetta. È la sorda diffidenza che filtra una retorica visuale come sempre
di altissimo livello; una strana diffidenza strisciante che avevamo già
intravisto in Aviator e che
si tiene sempre un passo al di qua dal “dare di matto”; l’inquadratura di
questo ultimo Scorsese non è Il Destino, come in Kubrick, ma è la
perplessità con cui si guarda chi sarà, è, ed è già stato, condannato dal
Destino a coincidere con l’immagine che è, nonostante faccia di tutto per
scrollarsela di dosso.
Fateci caso: poco prima della fine, a un certo punto saltano fuori delle
foto di alcuni bambini morti, in primissimo piano. Ebbene, quasi tutto il
film è girato esattamente come quelle fotografie. Non deve essere facile
allevare un pupillo che è già morto, anche se non lo sa.
20:03:2010
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