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il seme della discordia di Pappi Corsicato con Alessandro Gassman, Isabella Ferrari Altri interpreti: Martina Stella, Monica Guerritore |
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28/30
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Tanto per ribadire a chi non lo avesse ancora capito che Pappi Corsicato non è un clone di Almodovar, il regista napoletano si rivolge a Rohmer. Prende il suo La marchesa Von… (1978), fedelissima versione dell’omonimo racconto di Kleist, e lo “stupra” con il camp, il kitsch e monosillabi vari. E, simultaneamente, ne rimane perfettamente aderente. Perché se c’è qualcosa che dimostra con limpidezza come la fedeltà e il tradimento, il matrimonio e lo stupro, siano intimamente legati, questa è proprio la sublime novella di Kleist, rispetto alla quale Rohmer e Corsicato sono le due facce della stessa medaglia. Caterina Murino interpreta Veronica, una commessa che sta aprendo un concept store; la madre la spinge a fare un bambino che è arduo avere, dato che il marito, tra eiaculazione precoce, assenze lavorative (vende ironicamente fertilizzanti, e nelle frequenti trasferte professionali non disdegna di tradire la moglie), e specialmente la sterilità da poco scoperta, la aiuta poco. Lei, però, rimane misteriosamente incinta. Lui la lascia, convinto di un tradimento che mai c’è stato. Poco a poco, però, il rimosso viene a galla: qualche sera prima, Veronica è stata aggredita da due malviventi, lei è svenuta, e mentre lo era il poliziotto che è arrivato a salvarla (e che per tutto il film intrattiene un rapporto di candida e ricambiata simpatia con la protagonista), già che c’era, ha abusato di lei. Tutto questo, però, anziché allontanarla dal marito fedifrago, la riavvicinerà a lui: terranno il bambino, vivranno felici e contenti finché, nel finale tre anni dopo, la figlia del poliziotto scambierà un candido bacetto con il coetaneo fratellastro (figlio di suo padre e di Veronica) trovato per caso… Andiamoci piano con l’”elogio dell’artificio”. Ok, lo stile di Corsicato è un trionfo di improbabili colori, di spigoli di scrittura e di scenografia, di carte da parati sgargianti, di toni sopra le righe, di citazionismo (Via col vento… La corazzata Potemkin…), di musica easy e orecchiabile fino allo sfinimento. Ma è consapevole che tutto questo artificio produce quella implicita “nostalgia del vero” di cui lui sa sbarazzarsi acutamente, pur trattandosi della stessa nostalgia di cui per esempio Almodovar (soprattutto prima degli ultimi due film) è stato vittima spesso e volentieri (Parla con lei su tutti). E invece Il seme della discordia insiste (come già Kleist e Rohmer) sul fatto che l’inseminazione (il sesso come punto limite dell’”autenticità”) è inevitabilmente simbolica, immateriale, linguistica (il fertilizzante…). Falsa. Davvero qui debordianamente il vero è un momento del falso (la scena coi due sulla spiaggia dietro e davanti a vetri di colore diverso ribadisce che la trasparenza è solo un colore tra tanti), lo stupro (la violenza come “verità” inaffrontabile e rimossa) è solo un episodio attraverso cui il matrimonio (il trionfo autentico della finzione) muta indisturbato in se stesso. Lui e lei si riconciliano, alla fine, grazie all’occhio nero comune e entrambi: quello di lei per l’aggressione, quello di lui perché il marito becco della fioraia adultera l’ha scoperto e menato. Ovvero: due diversi modi di fare esperienza dell’impasse costitutiva del rapporto sessuale: lui che riesce a farlo solo grazie alla (maschile) duplicità (moglie/amante), lei perché letteralmente manca il rapporto sessuale/stupro (della violenza manco si ricorda, e di certo non gode col velocissimo marito), e differisce il piacere lontano da esso (l’orgasmo “spontaneo” a letto da sola, dove si ritrova letteralmente coperta di fiori), usando semmai il desiderio riciclandolo capitalisticamente (è con la sua bellezza che Veronica riesce a farsi il negozio, con l’immobiliarista, con l’arredatore…). La sessualità femminile, magnificata grandiosamente in questo film, è proprio questo ritrovare la duplicità senza la doppiezza (“adultera”) maschile: il tradimento davvero per Veronica c’è e non c’è allo stesso tempo anziché nei due tempi separati moglie/amante del marito. Veronica lo tradisce per davvero, il marito, col poliziotto, senza farci niente (cioè limitandosi a una simpatia “spinta” per quanto sempre casta) – e nello stesso tempo il tradimento “effettivo” dello stupro per lei è letteralmente come non ci fosse mai stato. Del resto, come già in Rohmer (la celeberrima allusione al quadro di Fussli), l’ellissi che rimuove lo stupro dalla narrazione segnala sia questa rimozione sia l’assenza di rimozione (la continuità): si passa dal primo piano (guardato da una soggettiva di Veronica) dell’aggressore mascherato a un primo piano del poliziotto – già qui c’è la sovrapposizione completa tra il salvatore e l’aggressore, tra il sesso e la sua rimozione. Una rimozione che si direbbe feticistica: e infatti quando lei si presenta al poliziotto, quest’ultimo le stringe non la mano ma una scarpa che lei ha in mano – senza contare che l’inizio del film (i cui titoli di testa vedono una sfilata infinita di scarpe femminili) vede una attempata cliente del negozio ammettere che la sua gamba finta l’ha resa molto più appetibile agli occhi degli uomini.
Del resto, tutto il film è un’ode alla coesistenza priva di relazione tra organico e inorganico, tra verità e artificio, a cominciare dallo stile (il montaggio del sorrentiniano Giogiò Franchini “deturpa” la mania corsicatiana per la posa inautentica deviandola, attraverso l’accelerazione ritmica, verso la continuità trasparente dello spazio filmico), per proseguire con un set che fonde genialmente i vecchi palazzoni fatiscenti e i grattacieli hi-tech. Chi non coglie questa mutazione organico-inorganico rimane il personaggio più sfigato, la ragazzetta interpretata da Martina Stella che già dai titoli di testa non riconosce la gamba finta, la scambia per uno stivale e dunque si illude che ci sia un corpo vivo separato da un vestito inerte, e di conseguenza non sa che esponendo in vetrina la propria “mercanzia” di corpo vivo in carne ed ossa si rende lei stessa manichino. Del resto, è lei a chiamarsi come una scarpa, Nike.
È questa coesistenza organico-inorganico a dirci che l’evidenza esiste per essere negata, anzi si nega già da sola: la trasfigurazione figurativa delle piccole scatologie del quotidiano (avanzi di cibo, una lavatrice che perde acqua, il taglio delle zucchine), che in questo film abbondano oltre ogni misura, ci mostrano proprio che il primo vestito inorganico di ciò che ci sembrerebbe inevitabilmente corporeo, fisico, concreto, è proprio la sua stessa apparenza. Nel tenero colloquio notturno nel parco tra Veronica e il poliziotto, loro sono in profondità in campo, ma quando lui le confessa il suo amore due inattesi primissimi piani di profilo di lui e di lei (che rimangono sullo sfondo ugualmente di profilo) irrompono nell’inquadratura vicinissimo all’obbiettivo a incorniciare… loro stessi che stanno parlando sullo sfondo: letteralmente i due sono preceduti (ma non sostituiti come si illude Baudrillard) dalla loro apparenza. L’apparenza inganna, sì, ma non perché è diversa dalla verità, quanto perché è essa stessa la verità. Ha un bel sognare, il poliziotto, il matrimonio riparatore: al massimo ripara la lavatrice di Veronica, sognandosi, mentre armeggia con essa, insediato nella sua casa, davanti alla televisione, accanto alla loro alcova nuziale. Il dissidio verità-apparenza non si può riparare perché non c’è niente da riparare, la verità è già sempre dalla parte dell’apparenza: a nulla vale la sua tardiva confessione dello stupro, il suo raffazzonato ponte tra verità e apparenza: l’apparenza è così vera che svolge come nient’altro ciò che è per eccellenza appannaggio della verità: sfuggire. Mai come in questo film (o meglio: come nel racconto di Kleist e nella sua versione rohmeriana) l’evidenza sfugge. La colpevolezza del poliziotto, non solo è vera ma è anche apparente, è lì evidentissima dall’inizio, eppure sfugge. Qui arriva il punto: questo sfuggire non è solo un trionfo del falso, una fuga dal vero, ma la fuga stessa è quanto di più vero ci sia. Vero non è lo stupro, ma la sua rimozione, perché esso stesso (lo stupro) è già la sua rimozione. La concezione è davvero immacolata: geniale il quadro con l’annunciazione alla vergine trasformata in un trompe l’oeil in un negozio di oggetti sacri, perché Veronica, come dice la madre, “può rimanere incinta anche solo con uno sguardo”. I due figli del poliziotto (quello di Veronica, poi, riporta il suo stesso neo sulla guancia) possono così baciarsi del tutto castamente nel finale: la rimozione (p. es. della loro parentela) non confina il vero in un segreto, perché questo segreto è già tutto lì, in quel bacio che non sa di essere fraterno ma è così casto che lo è lo stesso: l’infernale innocenza dell’apparenza. (In fondo, la lontananza di Corsicato da Almodovar, più semplicemente di tutta l’argomentazione che precede, è già evidente con un gioco di pura apparenza, cioè affiancando le foto di Caterina Murino e dell’almodovariana Rossy de Palma. Si assomigliano, sì, però la Murino non ha bisogno di essere deforme per essere bella, così come Corsicato non ha bisogno, per glorificare l’apparenza, di divaricarla da qualche realtà).
03:09:2008 |
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il seme della discordia
Regia:
Pappi Corsicato |
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