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Il primo
equivoco da scansare è che si tratti di un western. Più precisamente,
l'ambientazione della parte iniziale è un western, ma per il resto (e
complessivamente) è un melodramma su cui si innesta un ingombrante (ma tutt'altro
che disprezzabile)
pamphlet
sociologico sugli Stati Uniti, non
solo del presente. Dietro la storia di Ennis e Jack, amanti da giovani sui
monti Brokeback durante una permanenza temporanea per badare a un gregge,
idillio favoleggiato e rimpianto da entrambi per il resto della loro vita
nonostante i rispettivi matrimoni e alterne fortune, c'è la storia di un
paese senza Storia: cos'è infatti il western se non il genere antistorico
per eccellenze, l'elaborazione dell'assenza, da parte dell'america, di una
qualche Storia in cui riconoscersi, sostituita dal vuoto angosciante del
deserto e dei fasti gloriosi, ma malfermi, dell'iniziativa individuale? Alle
radici del Mito, dunque, non una Storia ma un idillio arcadico, un eden
perduto – e di conseguenza, niente basi su cui costruire un “vivere
sociale”, ma uno spento trascinarsi nell'inettitudine, l'eterno ritorno
della stessa mancanza. SIA che si abbia successo, come Jack, SIA che si
rimanga dei
lumpen
burberi come Ennis: Ang Lee ambisce all'evocazione della tragedia
identitaria di un popolo intero. 09/09/2005
Tutte le recensioni di Venezia 2005 |
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