
Il terzo episodio della saga colta e autoreferenziale di SCREAM, fortemente
voluta dallo sceneggiatore Kevin Williamson ("Dawson Creek", THE FACULTY),
ha alcuni pregi e molti difetti. Questi ultimi, peraltro, sono imputabili
alla prevedibile difficoltà di gestire un intreccio necessariamente sempre
più complesso e sempre meno plausibile. Al di là, quindi, della "storia"
(siamo sul set di un film, che è a sua volta l'episodio n°2 riferito agli
accadimenti "reali" di "SCREAM 1", quando l'assassino torna a colpire;
il centro di quegli episodi tragici è Neve Campbell, che aveva perso la
madre, e che viene richiamata dal suo esilio forzato - per ragioni di
sicurezza - perché si pensa possa aiutare le indagini, anche in quanto
braccata dal serial killer), ciò che interessa sono alcune considerazioni
"marginali", assai lontane dal giudizio estetico (appena sufficiente).
1) Partiamo da un assunto del film: l'assassino sta uccidendo le sue vittime
seguendo la sceneggiatura del film in lavorazione. A Hollywood e, più
in generale, nell'intera Los Angeles, questo è già accaduto altre volte:
la strage di Bel Air o l'assassino di Elizabeth Short (attricetta poi
ribattezzata "la dalia nera"), oggi incredibilmente attribuito nientemeno
che a Orson Welles (!?!), sono legati a doppio filo al mondo del cinema,
se è vero che ROSEMARY'S BABY anticipava temi satanisti cari a Charles
Manson, ovvero l'assassino (reale) dell'allora moglie di Polanski (Sharon
Tate). Anche i romanzi di un autore come James Ellroy (autore di L.A.
CONFIDENTIAL) sono tutti ambientati da quelle parti e mirano a descrivere
un mondo in cui violenza quotidiana e della "fiction" tendono a perdere
contorni definiti, sino a confondersi e a sporgersi verso l'abisso. Molti
assassinii, incluso quello della madre dello scrittore, sembrano avere
come esecutori misteriosi personaggi mai identificati, probabilmente assidui
frequentatori di scripts gialli e noir. Se a Chicago (città di mafia)
o New York la cronaca nera racconta una quotidianità brutale, ma di relativamente
facile lettura, a Los Angeles (o almeno la Los Angeles precedente la rivolta
nera del '92) tutto è avvolto nel mistero e i protagonisti stessi degli
episodi di violenza (poliziotti, detectives, gangsters) sembrano scambiarsi
le parti come in una recita, mettendo in atto un gioco di mascheramenti
pericolosi. Quindi possiamo dire, senza timore di oltrepassare noi stessi
i limiti di una decente plausibilità, che spesso a Hollywood la realtà
ha seguito i percorsi indicatile dal cinema o che, perlomeno, un canale
preferenziale per guardare il mondo è quello che ne mette in atto, prima
di tutto, una "rappresentazione". In questo contesto si spiega la proliferazione
dei "sequel", che sono il veicolo principale per racconti in cui l'autoreferenzialità
sempre più spinta allontana, per definizione, dai fatti reali (sempre
contenuti negli episodi "n°1"). E si spiega anche perché, a muovere le
fila di tutto il racconto, sia il personaggio del regista, che per poter
tornare a interagire con la realtà, deve prima metter in atto il suo "doppio".
Ma il gioco intellettuale, il rimando sottile, l'acuta "invenzione" semiologica,
ci soddisfano se serviti in piccole dosi, come in tutto il bellissimo
primo capitolo (1996) o nella trovata di questo SCREAM 3, in cui la giornalista
cinica (Courtney Cox) è affiancata dall'attrice che la impersona sul set
o nella scena in cui la Campbell capita nella propria stanza ricostruita
in studio, mentre il killer la insegue, e ascolta la propria voce e rivede
la scena del primo delitto.
2) La seconda considerazione, peraltro, è che Hollywood stessa è capace
di autocritiche inaspettate (o frutto di calcolo?). Come nel finale del
film, quando tutte le colpe risalgono ad un episodio tipico del mondo
del cinema: una starlette ingenua era stata violentata dal produttore
di turno prima di avere la parte in un horror di serie "b" , che si girava
,guarda caso, negli stessi Studi del nuovo sequel. Senza la benché minima
relazione con i precedenti SCREAM, il film si chiude nella sua residenza,
che assurge a luogo-simbolo del male, con uno scioglimento completo e
improvviso dei nodi narrativi. Come in BOOGIE NIGHTS (di ben altro tenore,
peraltro), Hollywood sembra fare, dopo l'autocitazione, anche l'autocritica:
ma non sapremmo dire quanto catartica o definitiva essa sia realmente.
Voto: 26/30
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