
Siamo in un GOOD WILL HUNTING ancor più corretto, adattato alle mutate
circostanze, e cioè alla presunta "multirazzialità" del racconto, con
tutto ciò che potremmo aspettarci da uno scontro morbido tra il precocissimo
genio letterario del ragazzino (che gira ovunque con un pallone da basket
e palleggia fin dentro gli appartamenti) e la selettivissima e yankeeissima
scuola privata alla quale viene instradato. Ma il centro vero del film
è l'interfacciarsi di due generazioni distanti anni luce: l'una ancorata
al minimalismo "analogico" del buon fare, dell'artigianato primitivo e
puro dell'art & crafts applicato alla letteratura, nonché convinta
assertrice di un eremitismo ideologico accompagnato ad una massiccia dose
di misantropia autodistruttiva; l'altra tranquillamente (forse troppo
tranquillamente) appoggiata ai pochi ma eticamente saldi principi di una
comunità nera a dire il vero molto poco simile a quello che ci aspetteremmo
dalla realtà!!! La Scrittura, il recupero alla WONDER BOYS di una Cultura
e di un mondo che vanno scomparendo, quelli proprio non sono presenti
nel film, che ha, anzi, una sorta di predecessore meglio riuscito nel
citato lavoro di Curtis Hanson. Difficile immaginarsi un ragazzino di
colore che nella New York odierna alterna Mark Twain ai Knicks o una classe
scolastica in cui si parla dei Baltimore Ravens come della prima squadra
che abbia preso il proprio nome da una poesia di Rimbaud (regolarmente
letto a scuola...)!!!!!!!!
L'impressione è che Gus Van Sant abbia definitivamentre venduto l'anima
al diavolo, dopo averci fatto credere di essere diavolo lui stesso. Dalle
convulsioni estreme di MALA NOCHE (1986), dalle sincopi visive ed emotive
del capolavoro DRUGSTORE COWBOY (1989), ma anche dai tempi di MY OWN PRIVATE
IDAHO (BELLI E DANNATI, con River Phoenix e Keanu Reeves, nonché Chiara
Caselli!!!, 1991) e EVEN COWGIRLS GET THE BLUES (1993, prima prova di
Joaquin Phoenix), troppo e' cambiato nell'orizzonte stilistico e nelle
scelte dei soggetti da parte di un talento ormai del tutto disperso. TO
DIE FOR (DA MORIRE, 1995, massima interpretazione di Nicole Kidman in
un ruolo perfetto per lei) e' stata l'ultima prova di valore di Van Sant,
forse per certi versi anche superiore a Drugstore Cowboy, perché più compatta,
consapevole, controllata e dove ogni componente - musica in prima linea
- contribuiva in egual misura alla definizione di un universo sospeso
tra una permanente sensazione onirica di crimine incombente e il mondo
a due dimensioni della provincia americana.
Avanziamo l'ipotesi che il regista, con quella prova, avesse creduto di
poter superare gli enormi problemi vissuti due anni prima con la produzione
di EVEN COWGIRLS (tagliato e cambiato nel titolo infinite volte, per colpa
della natura "allucinogena" e hyppie dei contenuti e per alcune scene
con Uma Thurman) e di poter accontentare un po' tutti, tra critica e pubblico.
Cosi non è stato e il definitivo cambio di registro e l'appalto della
propria anima agli Studios la si ebbe poco dopo, con GOOD WILL HUNTING,
cui è seguito l'indefinibile PSYCHO/remake e, ora, questo piatto e inutile
FINDING FORRESTER. Buono Connery per ruoli ormai definitivamente da intellettuale
statico che cita Burroughs (?!?!?) e ottimo il ragazzino del Bronx scelto
tra la folla incazzata e sempre più nera dei partecipanti al provino d'ammissione
del film.
Voto: 24/30
|