L’assoluta essenzialità, quasi la castità espressiva di questo bellissimo
film, fa da contrappeso al controverso DER UNTERTANG (La
Caduta), l’altro film-caso del cinema tedesco più recente.
Il pregio maggiore della pellicola sta proprio nell’opporre la regola del
sacrificio di un gruppo di giovani antinazisti, divenuta qui anche
ispirazione per un asciutto e limitatissimo decalogo di segni, al delirio
manierista di Bruno Ganz/Hitler.
La linearità della ratio posta alla base di una scelta suicida, ma coerente
e straordinariamente coraggiosa (chi mai avrebbe immaginato, addirittura,
l’esistenza di una opposizione interna durante il nazionalsocialismo?),
definisce il codice estetico del film, costruito come una rappresentazione
teatrale illuminata dal bianco freddo di esterni e interni, entro i quali i
protagonisti si muovono quasi entomologicamente sotto l’occhio vigile di una
m.d.p. resnaisiana.
Ciò che emerge, è l’idea di una soggettività pronta ad annullarsi di fronte
allo scopo finale di una speranza costruita sul continuo lavoro
collaborativo, dove sempre il pensiero è rivolto fuori di se stessi
(la contrazione emotiva della prima scena, quando la musica lascia il campo
al silenzio della clandestinità e l’emozione cede il passo all’azione; le
preoccupazioni di Sophie per la madre malata). Altrettanto nitidamente e
seccamente, la regia rinuncia a disporre sul piano visivo un qualunque
corteo di segni troppo riconoscibili, invadenti, lasciando che le cose
semplicemente avvengano. L’impianto formale, cioè, non pensa a se stesso, ma
a mettersi al servizio di una materia connotata da un’immane forza
comunicativa intrinseca. Il regista si comporta come Sophie durante
l’interrogatorio e usa i mezzi espressivi come un contrappunto fedele a
quello stoicismo laico, immediatamente riflesso in un corteo di sottrazioni,
compressioni temporali e scavi. Sovresponendo ossimoricamente l’essenzialità
potente di una verità che va celata, Sophie (e il film), quanto più
nascondono i dati e i dettagli del loro fare, tanto più ne parlano.
Più cose vengono occultate con pudore, più noi riceviamo materia emotiva.
LA ROSA BIANCA è costruito attorno alla figura, in tutti sensi, della
protagonista: gli eventi storici che la riguardarono e il mostrarsi come
esile resistentissimo corpo diretto, come una lama d’acciaio, al cuore della
follia hitleriana.
La visionarietà di una Jeanne D’Arc, e il fuoco di lei e degli Dei, vengono
ribaltati nella lucida visione omnicomprensiva della realtà,
comunista, egualitaria e umanistica, di una eroina moderna. Dal sacro al
laico, dal calor bianco mistico alle temperature glaciali di un’etica del
sacrificio silenzioso, senza spade.
La Scholl, e la splendida attrice protagonista, trattengono il respiro, ma
con questo mai cancellano i segni, disposti fra le righe del testo filmico,
di un’emozione fortissima.
Straordinario, in questo senso, il cambio di registro e l’impressionante
metamorfosi di Sophie una volta confessata la propria appartenenza alla Rosa
Bianca. Ma, attenzione: tutto avviene senza a-soli attoriali, senza
gestualità alcuna, potendo qui sfruttare i piani ravvicinatissimi che non
offre il teatro. Costruita con una mimica facciale d’inarrivabile ed
emozionante potenza espressiva, la trasformazione di S.S. in martire della
libertà (definizione alquanto pertinente, almeno in questo caso), è un
capolavoro d’arte recitativa. L’attrice entra in una trance zen che non fa
uso del corpo, ma solo delle vene ingrossate dalla piena del sangue che
sale; gli occhi, la bocca, i muscoli del viso disegnano una dinamicissima
geografia di micro-contrazioni e spasmi, andando verso la deriva di un
pianto che non verrà mai.
L’Orso d’Oro vinto a Berlino è, vivaddio, qualcosa di più di un
riconoscimento transitorio (si pensi a certe Coppe Volpi gettate al vento
dei flash dei fotografi e già dimenticate), anche perché assegnato in
patria.
Sophie si carica da questo momento in poi tutto il film sulle spalle, senza
peraltro rubare spazio alla capacità comunicativa della messinscena
algidamente e tragicamente scarna, sino alle tre scene finali (incontro coi
genitori, abbraccio a tre e sigaretta del detenuto, ghigliottina solo
intuita grazie al sonoro), perfettamente concepite e realizzate.
Voto: 30/30
21:11:2005 |