
Durante una violenta manifestazione anti-americana nello Yemen, il colonnello
dei Marines Terry Childers (Jackson) alla guida della missione che deve
mettere in salvo l'ambasciatore statunitense (Kingsley), ordina di sparare
sulla folla di civili. Al ritorno c'e' ad attenderlo la corte marziale.
William Friedkin, regista ambiguo e coraggioso, colui che con L'ESORCISTA
(1973) aveva liberato per sempre l'horror dal girone della serie B, che
provoco' i benpensanti con CRUISING (1980), che diede colpi a "destra"
e "sinistra" (soprattutto a sinistra) con Il BRACCIO VIOLENTO DELLA LEGGE
(1971), si da' ad una produzione che si inserisce a pieno titolo nel cosiddetto
genere "processuale", genere premiato dal pubblico. Che si tratti di un'operazione
commerciale non vi e' dubbio (a scanso di equivoci vediamo anche la lattina
di Pepsi fare capolino con non-chalance quando meno te l'aspetti. Ma Tommy
Lee Jones ha un contratto? Vi ricordate VULCANO con il distributore che
spunta come un miraggio durante la grande eruzione?). Friedkin non e'
nuovo a pellicole in cui il colpevole deve dimostrare la propria innocenza.
Peccato che stavolta la sua prova non convinca, e non tanto per i modi
in cui l'inchiesta viene condotta, ma piuttosto per come viene mostrata:
in modo opaco, e il premio oscar Jones sembra sempre piu' la propria caricatura,
lontano ormai dal poliziotto de IL FUGGITIVO. Il "mestiere" di Friedkin
infatti si vede, ma lo "stile" e' debole, e da un guru come lui ci aspetteremmo
qualcosa di piu' di un film di routine. Persino la sequenza iniziale,
infatti, la piu' ricca di tensione e quindi quella che meglio si presta
a sfoderare l'esperienza maturata su horror e polizieschi (il suo genere
piu' amato), si risolve in un uso di trucchi in fase di post produzione,
dal sapore seventies.
Il resto del primo tempo comprende la sequenza nello Yemen, come e' stato
fatto notare da piu' parti politicamente un po' "scorretta", ma a parte
questo un po' troppo sopra le righe (e a rischio risate). Il processo
si svolge interamente nella seconda parte. E' da notare che lo spettatore
viene tenuto all'oscuro sulla verita', perche' se nella prima parte i
fatti ci vengono mostrati con punti di vista frammentati e frammentari,
e ricomposti dal montaggio, nella seconda vediamo finalmente la soggettiva
di Jackson, l'unico personaggio che puo' sapere la verita' dei fatti (ma
non la verita' umana che va oltre la casualita' degli eventi).
Lo sceneggiatore (Stephen Gaghan, da un soggetto di James Webb) tiene
le distanze da ogni giudizio morale conclusivo sulla vicenda narrata,
o meglio rimane ambiguo, perche' qua e la' traspare qualche simpatia di
troppo (potenzialmente giustificatoria della strage) per il mondo militare,
narrato con uno sguardo un po' retorico, quindi intellettualmente mediato
e pertanto sospetto (giusto per chiarire le cose). Certo sul piano diegetico
la sceneggiatura "tiene", ma un po' meno sul trattamento delle singole
scene. La musica di Mark Isham non contribuisce a migliorare le cose,
piu' convenzionale che mai fin dai titoli di testa, con il trito rullare
di tamburi militari in crescendo!
Tornando alla regia, perche' le maggiori aspettative riguardavano proprio
l'autore di VIVERE E MORIRE A LOS ANGELES, ribadendo che ora lo "stile"
manca, dobbiamo chiederci: qual e' lo "stile Friedkin"? Forse non esiste,
perche' Friedkin non e' esattamente un "autore", anzi e' un "anti-autore".
E allora perdoniamogli una carenza di carattere forte e inconfondibile,
ma questo film un po' inutile, che nulla mette e nulla toglie rispetto
ad un "genere" che gia' tende a ripetere stancamente se stesso, avrebbe
potuto essere girato, se non con "stile", con un po' piu' di classe.
Voto: 20/30
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