RED DRAGON
di Brett Ratner
con ANTHONY HOPKINS, EDWARD NORTON



Michael Mann usava i bianchi dell'illuminazione di scena, come quelli derivanti dalla luce naturale dei lucernai del Museo di Atlanta progettato da Richard Meier [ in MANHUNTER era la sede del distretto di polizia ], o, ancora, quelli delle ville hi-tech progettate dai Five Architects, come ambientazione astratta e tardomodernista , ma in ogni caso specchio di un welfare diffuso e raggelante, per i delitti [ la dominante è il rosso… ] del Dragone Rosso. La scena ricreata ogni volta, quella del delitto, era una pièce teatrale statica, quasi un Robert Wilson ancor più minimalista, che doveva garantire le premesse spaziali e psicologiche per la rivelazione estatica di ciò che lì era successo: tela bianca abbacinante, sulla quale le righe e le chiazze di sangue erano gesto pollockiano ricontestualizzato in ambiente-Donald-Judd [ ! ], che parlava la lingua compresa dal detective intuitivo e sensibile del film di Mann, "critico d'arte" impegnato nella decrittazione di segni sconosciuti ad altri. Ne risultava una condizione di concentrazione zen del protagonista, che entrando in quelle stanze disegnate dall'orrore, esperiva una catarsi costruita sul diventare egli stesso la mente dell'assassino, per riviverne i processi mentali e le, chiamiamole così, invenzioni visive [ i frammenti di vetri e specchi incastonati negli occhi delle "opere d'arte"/ cadaveri ]. Solo dopo essere stato egli stesso coautore di quella galleria di body art estrema, poteva liberarsi, elevandosi oltre il bene e il male e, dall'alto di questa condizione, osservare con freddezza e lucida arte dell'analisi gli atti compiuti. Il colpevole, l'adepto di Hannibal Lecter già incapsulato nelle celle bianchissime del suo carcere, non poteva competere, quindi, con le sottigliezze psichiche dell'investigatore e finiva in trappola, non prima di aver organizzato un tentativo di Bel Air Art [ la vittima doveva essere l'amata/ cieca, unico essere capace di sostenere l'intollerabilità visiva di un volto deformato ] accompagnato dal suono camp degli Iron Butterfly di IN A GADDA DA VIDA , ovvero In the Garden of Eden. Il film di Mann era un capolavoro assoluto, dove tutto girava attorno al concetto di visione, come atto dell'occhio che non vuole più guardare le deturpazioni del viso che lo accoglie e di conseguenza corrompe la perfezione di specchi e vetri riflettenti, e ovviamente come atto di scavo interiore per raggiungere stati psichicamente più elevati. Il mestiere del detective era quello di un monaco che doveva staccarsi dal mondo, allontanandosi dalla famiglia, recidendo legami e costruendosi le premesse per l'ipnotica rivisitazione di quel catalogo di gesti. La pellicola intesa come supporto ne risultava, più che sbiancata, investita da una specie di aura che è il tratto caratteristico di quel capolavoro. Aura intesa proprio come aureola delle cose e delle persone. Nel brutto film di Brett Rattner, invece, la fotografia scolora maldestramente scene illuminate convenzionalmente e sembra proprio che in fase di postproduzione si siano usati acidi o additivi per sbiancare il supporto, con risultati imbarazzanti: se doveva essere un qualche omaggio a Mann, ne è venuto fuori qualcosa di veramente imbarazzante. Anche perché gli ambienti sono scuri, come il carcere di Lecter, che è quello de IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI, in pietra scura e vetro, solo per agganciare il tutto al film di Demme e ricostituire una squilibrata trilogia [ RED DRAGON- IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI- HANNIBAL ], dove due sono opere da dimenticare e solo il film con la Foster poteva in qualche modo competere con MANHUNTER. Tutto sbagliato, dal gigione Hopkins impomatato e replica di se stesso, ma invecchiato e poco convincente, al terribile Edward Norton, che è un ragazzino dalla smorfia fumettistica ficcato dentro un gioco troppo più grande di lui, allo stesso Ralph Fiennes, altrove bravissimo, ma qui costretto da Rattner a disegnare un killer catatonico e triste, non drammaticamente vitale come il predecessore. Per non parlare del finale improvvisato, affrettato, mal girato. E tutto il film, comunque, procede a scatti, quasi fosse una fotocopia mal riuscita dei pezzi di MANHUNTER, lì perfettamente collegati. Insopportabile, poi, la teoria di primi piani che proiettano RED DRAGON già ora nel suo futuro televisivo, laddove Mann lavorava con infinite profondità.

VOTO: 17/ 30

Gabriele Francioni
29 - 10- 02