A differenza di THE WILD BLUE YONDER, GRIZZLY MAN – vincitore del Sundance
Festival 2006 – è un documentario tout court, non solo sorretto da
tutte le strutture enunciative e le scelte linguistiche proprie di questo
regime di rappresentazione, ma anche fondato su un rapporto di fiducia tra
spettatore e regista, con il primo ben consapevole della veridicità degli
enunciati del secondo. Detto più semplicemente: lo spettatore sa di trovarsi
di fronte a una storia vera, con personaggi realmente esistiti.
La profonda consapevolezza con cui Herzog utilizza tutte le marche
distintive del documentario in quanto tipologia testuale si rende evidente
in GRIZZLY MAN sotto almeno due aspetti: il primo è legato al bilanciamento
perfetto che il regista riesce a trovare nell’espressione di due punti di
vista opposti, cioè quello di Treadwell e il proprio; l’amore quasi
patologico che il “Grizzly man” riversa su volpi e orsi è presentato senza
reticenze o pudori attraverso i filmati dello stesso Treadwell: Herzog
lascia letteralmente al suo “protagonista” lo spazio testuale per
esprimersi, per presentarsi allo spettatore, per raccontarsi. Treadwell
addirittura sembra quasi abusare di questo spazio che gli viene concesso
lasciandosi andare a performance istrioniche, come durante l’invettiva
contro i guardaparco: con il suo ossessivo sguardo in macchina e la sua
gestualità sovraccarica, Treadwell – insieme attore e regista di se stesso –
domina una scena nella quale ricopre il ruolo di un personaggio bigger than
life, come Kinski prima di lui aveva più volte fatto con Herzog.
Pur lasciando a Treadwell lo spazio fisiologicamente ampio che una
personalità come la sua richiede, Herzog non rinuncia però a esprimere anche
il proprio di punto di vista, non senza una certa durezza: nella battute
finali del film, la voce fuoricampo del regista dichiara di non riuscire a
vedere negli occhi degli orsi scintille di amicizia o di complicità; tutto
ciò che vede è indifferenza, perché la natura non è altro che – quasi
leopardianamente – un caos indifferente e crudele, fondato sui bisogni
primari, sull’istinto predatorio, sulla morte e sull’assassinio. Questa
visione contrasta in maniera stridente con l’illusione di un’armonia panica
che traspare dagli appassionati discorsi di Treadwell: GRIZZLY MAN non è –
né vuole essere – un’agiografia, ma piuttosto una riflessione sull’uomo,
sulla sua forza di volontà ma anche sui suoi limiti e sulle sue illusioni.
Il disperato umanesimo che ispira lo sguardo di Herzog consente allo
spettatore di leggere le immagini lasciate da Treadwell non come uno studio
sull’habitat degli orsi, ma – in maniera assai più incisiva – come
l’ennesimo tentativo di esplorazione dei limiti dell’esperienza umana messo
in scena dal maestro tedesco. Questo tentativo – mai gratuito, mai fine a se
stesso – si nutre (ed ecco il secondo aspetto) di una tensione etica
fortissima, che si traduce in una serie di scelte estetiche improntate alla
coerenza più stretta, più intransigente: non solo lo stile di ripresa
raggiunge un grado eccelso di sobrietà e di pulizia, ma l’uso sapiente che
Herzog fa del fuoricampo (e dell’assenza in generale) tolgono ogni ombra di
compiacimento nel raccontare quella che – in definitiva – è una storia di
sangue e morte. La scelta di non mostrare le foto dei resti di Treadwell e
della sua compagna rima splendidamente con quella di non far ascoltare allo
spettatore la registrazione audio degli ultimi minuti di vita dei due,
mentre urlano disperati durante l’attacco dell’orso.
GRIZZLY MAN è dunque un film coraggioso e rigoroso, che affronta temi
capitali traendo forza e slancio dalla profonda eticità del suo stesso
sguardo.
Voto: 29/30
17:11:2006 |