da 61ma mostra del cinema di venezia

FERRO 3

LA CASA VUOTA
di Kim Ki-Duk
Con: Hee Jae, Seoung-yeon Lee

 di Marco GROSOLI  

 

Un giovane vive entrando nelle case lasciate temporaneamente incustodite. Prende il necessario per sopravvivere, non ruba nulla, sistema le cose fuori posto (aggiusta elettrodomestici rotti e così via) e se ne va al ritorno dei proprietari. Le cose però si complicano quando si innamora di una ragazza sottomessa al ricco marito, e soprattutto quando in un appartamento trova un morto e viene arrestato perché credutone il responsabile. Da sempre il cinema di Kim si basa sulla ruvida concretezza del gesto fulmineo (spesso violento), sospeso in un'atmosfera rarefatta ed essenziale. Con gli ultimi film, sembra che venga a sovrapporvisi una tendenza all'astrazione sempre maggiore (si veda il processo di progressiva stilizzazione che innerva gli episodi di Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera). Bin jip ne è probabilmente il punto di arrivo. L'incedere a scatti e scoppi brutali della messa in scena di Kim, pur non perdendo questa caratteristica, appare sempre più aerea, impalpabile, lieve. Il gesto si smaterializza (soprattutto grazie alla ripetizione: si veda il gesto del colpire la pallina da golf, ripetuto fino alla nausea) fino a diventare un'ombra. Un fantasma.
Questo è fin dal soggetto un film sul fantasma, sulla traccia nascosta che sta dietro a una cosa, a un'immagine, a un'azione. Questo è lampante nel bellissimo finale, ma anche, più sottilmente, nel fatto che più volte i personaggi del film non sappiano di essere visti da qualcuno che, di fatto, essendo presente ma non venendo visto è come un fantasma (la ragazza quando inizialmente vede l'intruso il quale non si accorge della presenza di lei, il secondino del carcere pedinato passo passo dal protagonista, e così via), o quando la ragazza, mentre l'innamorato è in carcere, si reca negli appartamenti visitati con lui ripercorrendone appunto la traccia invisibile del ricordo.
Nell'ultimo film "buddista", l'assassino si monda della colpa incidendo con un coltello dei caratteri di scrittura dipinti sul suolo. Redenzione ottenuta tramite il ricalco di una traccia, annullamento del sé in un esercizio di passiva obbedienza. Questo film è uguale: si ripulisce da qualsiasi espressione o passione o narrazione o altro, perdendosi in una gestualità senza altro oggetto che la traccia fantasmatica da ricalcare. Perciò, si fissa ossessivamente sui gesti che ripetono qualcosa di già dato, o che si esauriscono gratuitamente in sé stessi (non solo il golf, ma anche molte delle azioni che il protagonista compie nelle case, o le violenze subite in carcere, o le piccole tenerezze tra i due, i cerimoniali "inutili" come quello del té nella casa del coltivatore di té, e gli esempi si sprecherebbero a decina) e in questo modo qualsiasi "cosa" possa essere il film (storia d'amore, scontro tra due personalità maschili, eccetera) si annulla nell'essere pura e semplice esecuzione di un presupposto che non c'è.
Si annulla nel gratuito di una gestualità che si libera di se stessa, del proprio oggetto, della propria ragion d'essere, persa nella mera esecuzione fine a sé stessa. La storia d'amore non è più una storia, ma soltanto amore, una presenza impalpabile che traspare da ogni gesto (che la regia di Kim stringe sempre in una secchezza sospesa e astratta, proprio per renderlo impalpabile). L'immagine ("monca" per natura, segnata irrimediabilmente dal fuoricampo), così, diventa una sorta di schizzo a grandi linee di sé stessa, un'orma sul terreno, un accenno di qualcos'altro, un gesto mancato; l'azione si dissolve e diventa aria, l'accento non è più in ciò che si vede (trattato sbrigativamente dalla messa in scena, sincopata e prosciugata, fino a quasi ammutolire totalmente i personaggi principali), ma nella traccia invisibile che sentiamo stare dietro, come le foto degli inquilini che guardano l'intruso aggirarsi nella loro casa.

Ogni situazione è tronca, orfana: il protagonista si aggira per le case SENZA gli inquilini, il secondino NON trova il prigioniero che lo segue dietro di lui, la ragazza guarda il giovane SENZA che lui se ne accorga, e più tardi NON si riconosce nelle sue foto del passato, e mille altri esempi potrebbero essere fatti. Kim esaspera questa orfananza esaurendo il gesto senza farlo diventare azione, facendolo "macerare" in sé stesso, facendocene avvertire la bruciante incompiutezza, la mancanza costitutiva, senza rinunciare alla leggerezza, anzi, fomentando il ritmo per dare aerea scorrevolezza al tutto.

 

Voto 28/30

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