A
quasi 12 anni di stanza dal suo ultimo lavoro, quel
Dellamorte Dellamore così
originale e controverso, Michele Soavi torna al cinema e ci tiene a farlo
notare. Sin dalle prime battute si capisce che non ci si trova di fronte ad
una messinscena piatta che si limita a mostrare; l’obiettivo del regista
milanese è quello di “raccontare” ed intende farlo alla sua maniera.
La storia è quella di Giorgio, un ex terrorista fuggito in Sudamerica per
evitare l’ergastolo. Dopo la caduta del muro di Berlino questi decide di
rientrare in Italia e si mette in contatto con l’Organizzazione perché lo
aiuti nella revisione del processo e lo faccia scagionare. A mettergli i
bastoni tra le ruote ecco però il vicequestore della Digos Anedda, uno
corrotto fino all’osso che lo ricatta perché faccia i nomi dei suoi
compagni. Uscito dopo solo due anni di galera, Giorgio inizia a rifarsi una
vita ed entra in affari con un ex compagno di carcere proprietario di un
locale a luci rosse. è qui
che conoscerà Flora, una bella quarantenne da cui avrà il corpo ma mai il
cuore. Presto però Anedda tornerà nella sua vita per proporgli un colpo che
gli permetterà di diventare milionario ed iniziare a rifarsi una reputazione
in una cittadina del Nord Est dove comincerà a fare progetti di matrimonio
con Roberta, una ragazza ingenua e per bene. Il passato però sembra essere
una macchia indelebile e presto o tardi tornerà a presentare il conto.
Arrivederci amore ciao è un film violento, insofferente, sensuale e
disinibito. Un film che non ha paura di mostrare con accuratezza quasi
maniacale anche i particolari apparentemente più insignificanti o scabrosi,
a volte eccedendo in questo. Alcune sequenze risultano ai limiti del
grottesco, è vero, ma resta il fatto che Soavi esibisce una quantità di
soluzioni narrative davvero notevoli. La parte finale, un po’ troppo fiacca
e forzata, non rovina però quello che rimane un poliziesco di denuncia come
non se ne vedevano da anni.
L’approccio alla messa in scena del regista è profondamente influenzato
dagli anni passati come aiuto regista alla corte di Argento e Bava: primi
piani, particolare, figure intere ed un larghissimo uso della macchina a
mano ne sono una prova evidente. A volte sembra di essere tornati ai film di
genere degli anni Settanta, che Soavi conosce molto bene e a cui tributa
diverse citazioni mai fuori luogo. Probabilmente la fotografia e le luci
psichedeliche dai toni molto accesi che troviamo nella prima parte,
contribuiscono a conferire alla pellicola questo marcato tratto retrò.
Gli attori, a partire da una Isabella Ferrari quantomai intensa e
passionale, se la cavano a meraviglia: Alessio Boni si cala perfettamente
nei panni del killer freddo e riflessivo laddove Michele Placido riesce in
parte a dare spessore ad un personaggio forse troppo stereotipato, anche se
l’accento sardo non è decisamente il suo forte.
Le musiche, che spaziano dai ritmi rock dei Deep Purple alla bellissima
canzone di Paolo Conte cantata dalla Caselli che da il titolo alla
pellicola, fanno da sfondo perfetto alla vicenda e si innestano
magistralmente nel racconto sottolineandone i cambiamenti di registro.
Qualcuno ha parlato di eccessiva violenza troppo fine a sé stessa, ma la
violenza non è forse di per sé fine a sé stessa? Io credo si tratti
semplicemente del film italiano che più di tutti, negli ultimi tempi, si
avvicina al genere pulp - tanto di moda oltreoceano - per la sua cattiveria,
per la messa in scena e, sì, anche per i suoi eccessi.
Voto: 25/30
14:03:2006 |