
La stagione cinematografica in corso verrà probabilmente ricordata come
una delle più prolifiche dal punto di vista del genere biografico:
Alexander, The Aviator,
Neverland, Kinsey (quest’ultimo ancora inedito in Italia),
I diari della motocicletta
e, naturalmente Ray, sono
tutte pellicole che attingono dalla vita di personaggi leggendari (in
alcuni casi solo particolarmente conosciuti) per attirare nelle sale il
maggior numero possibile di avventori.
Ora, ci sono diversi modi di affrontare la biografia di un personaggio
celebre: ci si può soffermare in dettaglio solo su uno dei periodi più
significativi della vita della persona in questione (e magari al tempo
stesso usare questa rappresentazione come sorta di lezione morale e
universale); oppure ci si può limitare a trasporre in maniera superflua
sullo schermo vita, morte e miracoli del soggetto facendo una panoramica
a 360°, ma tralasciando al tempo stesso numerosi particolari degni di
nota. E’ infatti possibile poter riassumere la vita di un uomo in due o
al massimo tre ore?
E’ chiaro sono solitamente le biografie del primo tipo quelle che
riescono a trasmettere un’idea di chi fosse la persona di cui si sta
parlando (soprattutto da un punto di vista umano), mentre quelle a 360°
sono invece spesso paragonabili a film per la Tv; ricche di personaggi
caricatura, madornali omissioni e sceneggiature fin troppo prosaiche nel
loro flebile tentativo di non perdere di vista alcun evento
significativo.
La struttura di Ray fa sì
che il film faccia parte della seconda categoria del genere di
biografia.
La pellicola si apre nel 1951, con un Ray ventunenne che parte pieno di
speranza per Seattle, procede tramite un collaudato utilizzo di
flashback a portarci indietro negli anni ’30 per mostrarci la formazione
del giovane Charles, e si concentra poi sugli anni ’60, passando così
per tutte le tappe principali della vita dell’artista: il problema della
sceneggiatura è che nel corso delle due ore e mezza della vicenda, la
storia fatica a decollare, e tutto il film sembra colto da una
incomprensibile flemma.
Durante l’ora finale poi, Hackford (già regista di
Ufficiale e Gentiluomo e
L’avvocato del Diavolo)
sembra non sapere più dove andare a parare, e cade addirittura nel
ridicolo per alcuni momenti con delle sequenze psichedeliche che
riportano alla memoria gemme del trash come
Psych Out o
Liquid Sky.
Nonostante la leggerezza nel trattare l’argomento, ci sono almeno due
motivi per cui nonostante tutto vale la pena non lasciarsi sfuggire
Ray: il primo è la
strepitosa colonna sonora che include (come d’altronde era lecito
aspettarsi) tutti i più celebri pezzi del bluesman; il secondo è la
grandissima prova di recitazione di Jamie Foxx, che quando indossa i
caratteristici occhiali scuri e si siede al pianoforote “diventa” il Ray
Charles che tutti abbiamo imparato a conoscere. Recitazione a parte,
l’uomo Ray non è mai veramente sviluppato, e poco può fare Foxx per
elevare uno script zeppo di cliché e momenti poco credibili.
E’ poi interessante notare come le tre biografie di altrettanti
personaggi popolari diversissimi (e dirette da autori altrettanto
lontani fra loro), e cioè
Alexander, The Aviator e la pellicola in questione, siano tutte
ricorse ad un espediente a dir poco semplicistico come l’influenza
materna (di freudiana memoria) per spiegare in qualche modo i
controversi comportamenti dei protagonisti.
“Convenzionale” e forse l’aggettivo che meglio rende l’idea di ciò che
ci si può aspettare da Ray,
film che pur celebrando a dover uno dei più grandi musicisti del secolo
e nonostante goda di una recitazione impeccabile, non riesce comunque a
creare spunti interessanti e rimane (complice anche una direzione
mediocre, nonostante una tecnica generale sopra la sufficienza) soltanto
una delle tante Biopics che affollano il mercato cinematografico
in questo particolare periodo.
Voto: 19/30
06:02:2005 |